Grandi mostre. 1
Nicola Samorì a Bologna

Sulla pelle
dei dipinti

Marta Santacatterina

Lassù, in alto, si svolgono le scene affrescate che raccontano le vicende di Giasone e Medea, dipinte entro il 1584 da Annibale, Agostino e Ludovico Carracci, pittori da poco affacciatisi sulla scena artistica bolognese; sono uno dei tanti capolavori da ammirare a palazzo Fava. In basso, è stata allestita una sorta di macchina teatrale formata da numerosi dipinti che raffigurano dei santi, a prima vista secenteschi, e che si rivolgono, con la loro gestualità, la posizione del capo e lo sguardo proprio ai fregi originali. Ma non si tratta di opere antiche, bensì dei lavori di Nicola Samorì (Forlì, 1977) a cui è ora dedicata un’ampia rassegna monografica nell’antico edificio del capoluogo emiliano. Il progetto è stato fortemente voluto dal presidente della Fondazione Carisbo (Fondazione Cassa di risparmio in Bologna), Fabio Roversi Monaco, che ha seguito da vicino l’artista fin dalle sue prime esposizioni all’inizio degli anni Duemila e che con lungimiranza ha incoraggiato l’acquisto di alcune sue opere per le collezioni d’arte e di storia della stessa Fondazione. Proprio a partire da questo nucleo e da un legame profondissimo di Samorì con l’arte del Cinquecento e del Seicento - ma non solo, come vedremo - nasce la mostra promossa da Genus Bononiae. Musei nella Città. 


Il tratto distintivo e immediatamente riconoscibile dei suoi lavori scaturisce dal rapporto che intrattiene con la materia pittorica: un fattore inevitabile, come dichiara lo stesso artista durante la nostra intervista, e che non potrà mai essere superato. Ciò perché gli esseri umani “abitano” un corpo fatto di materia e proprio attraverso quel corpo mettono in atto le pratiche artistiche: le mani scolpiscono la pietra, stendono il colore, modellano i materiali plastici, creando un legame profondo tra la “materia umana” e quella delle opere. «Disporre un’immagine su una superficie, lavorare sull’opacità della calce, sulla plasticità dell’olio, sulla polvere del pigmento sono degli elementi per me non accessori; anzi spesso proprio da questi parte il contenuto dell’immagine», spiega Samorì, aggiungendo che «le mie opere si incarnano esattamente in quel tipo di materia». Ecco allora che la pelle della pittura (e l’immaginazione corre inevitabilmente al mito di Marsia), sia essa sottilissima e rarefatta come quella adottata dai fiamminghi, sia densa e spessa, composta da morbidi strati a olio, viene poi incisa a bulino, forata con le dita, tagliata con il bisturi e lasciata ricadere su se stessa mettendo a nudo «le viscere dell’immagine - che non sono più conosciute neanche a me - e le stratificazioni, gli accumuli temporali e i piani dei colori che corrispondono alle stesure». 


Se nella gran parte dei casi il punto di partenza deriva dalle opere del tardo Cinquecento e del Seicento - gli amati ritratti dei santi in estasi o in martirio, le nature morte, le “vanitas” -, le “ferite” che Samorì infligge sulla superficie dei suoi dipinti non potrebbero mai essere pensate senza l’esperienza del XX secolo e dell’Informale: le forature non possono prescindere da Lucio Fontana, certa gestualità impressa sulla materia è debitrice del periodo informale di Mattia Moreni, e qua e là trapela la presenza di Alberto Burri e di Piero Manzoni. «Nessuna delle mie immagini può essere definita astratta, anche se alcune corrono sul filo del rasoio», precisa tuttavia l’artista. 


La mostra di Bologna ripercorre le tappe che hanno portato Samorì ai più recenti esiti delle sue ricerche e che prendono idealmente il via con Giardino anatomico, una delle opere acquisite da Fondazione Carisbo e che «fa parte di una sequenza realizzata usando monotipi, tracce di incisioni, di puntasecca. È una pittura che è ancora disegno e opera grafica, e l’esposizione evidenzia lo slittamento da segno a colore che è stato favorito dall’incisione, la quale diventa monotipo e poi pittura diretta».