Fotografare elementi architettonici come finestre e pareti, così come i particolari e i materiali che li
caratterizzano, non per descrivere l’architettura in sé, ma per parlare di fotografia, o meglio, di ciò che sta alla base del processo fotografico,
nonché della progettazione: la luce, lo spazio, il tempo. Questa l’essenza del lavoro di Luisa Lambri (Como, 1969), che ha scelto come soggetto
principale delle sue fotografie un particolare tipo di architettura, quella modernista (complice anche il suo essere comasca e avere avuto fin
dall’infanzia sott’occhio l’esempio di Giuseppe Terragni), dominata principalmente da figure autoriali maschili.
Scatto dopo scatto, Lambri decostruisce da una prospettiva forse più femminile che femminista edifici iconici di grandi nomi come, tra gli altri,
Alvar Aalto, Marcel Breuer, Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Mies van der Rohe, Oscar Niemeyer e Richard Neutra.
Proprio a quest’ultimo è dedicata la serie degli Untitled (Strathmore Apartments), di cui fa parte la fotografia qui riprodotta.
Richard Neutra, che fu un appassionato fautore del binomio utilità e bellezza (a cui intitolò il suo testamento spirituale, pubblicato nel 1954,
Progettare per sopravvivere), realizzò gli Strathmore Apartments di Los Angeles nel 1937. In questo complesso, formato da otto unità abitative
in stile internazionale, soggiornarono, oltre ad alcuni famigliari dello stesso Neutra, varie personalità delle arti e dello spettacolo, come il regista
Orson Welles e la coppia di designers Charles e Ray Eames.
Lambri si sofferma sul particolare delle “jalousies” o veneziane bianche che completano le vetrate minimaliste del complesso residenziale. Ancor
più che dall’elemento geometrico-architettonico, è attratta dalla sua funzione di membrana che filtra la luce; funzione paragonabile a quella di un
otturatore a tendina dell’apparecchio fotografico. Invece di documentare l’edificio di Neutra, l’immagine parla di sé, del processo che l’ha generata e
può essere pertanto definita una fotografia “autoriflessiva”.
Quella di Lambri è un’operazione metalinguistica che concettualmente sposta il cardine della creazione artistica dal piano dell’oggetto a quello
del processo, che tratta della luce come del medium principale della fotografia, ma anche della centralità dello spazio, del rapporto tra interno ed
esterno, tra ciò che si vede e non si vede o soltanto si intravede (gli alberi oltre la finestra).
Lambri nega la fotografia come immagine primariamente figurativa o mimetica a favore della sua astrazione geometrica. Non a caso, i suoi punti di
riferimento sono il Light and Space Movement e la Minimal Art americani, il neoconcretismo brasiliano, Piero Manzoni con i suoi Achromes e Lucio Fontana
con i suoi Concetti spaziali o Tagli: tendenze e protagonisti che, a partire da metà Novecento, hanno ridotto i mezzi dell’arte all’essenziale
e introdotto una nuova concezione di spazialità.
L’affinità elettiva tra fotografia e spazio nel lavoro di Lambri è evidente anche nelle sue mostre: non ultima, quella allestita al Padiglione
d’arte contemporanea di Milano (fino al 19 settembre), un singolare “autoritratto” dell’artista – questo il titolo scelto in omaggio al celebre libro di
interviste di Carla Lonzi –, che dialoga con l’architettura di Ignazio Gardella.
Dentro l'opera
FOTOGRAFIA
(AUTO)RIFLESSIVA
di Cristina Baldacci