Fede Galizia vive tutta la sua vicenda prevalentemente a Milano, anche se – in almeno un’occasione – si dichiara di
discendenza trentina. Non sappiamo dove sia morta, ma probabilmente nel capoluogo lombardo, dopo il 21 giugno 1630. Il trasferimento – da Trento a
Milano – della famiglia Galizia, di origini cremonesi, deve essere avvenuto sulla scorta del poliedrico padre, Nunzio, artista pure lui e che non perde
invece occasione per dirsi trentino, impegnato nel mondo della miniatura, dei costumi, degli accessori, ma anche in quello della cartografia.
Fede – un nome programmatico per l’Europa della Controriforma – ottiene un successo straordinario tra i committenti dell’epoca, tanto che opere
sue raggiungono, prima del 1593, tramite Giuseppe Arcimboldi, la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo. Gli studi novecenteschi hanno dato particolare
risalto all’attività di Fede come autrice di nature morte, alle origini di questo fortunato genere.
La mostra – la prima dedicata a Fede Galizia, in corso al castello del Buonconsiglio di Trento fino al 24 ottobre – aspira a rispondere alla
domanda: perché questa pittrice piaceva tanto? Quanto ha pesato, in questo, il suo essere donna? Nel pieno del Cinquecento si affaccia alla ribalta
della storia dell’arte un piccolo gruppo di donne, dalle identità finalmente definite, che si dedicano alla pittura. Non che ne fossero mancate nei
secoli precedenti, ma le loro figure non erano riuscite a emergere, schiacciate dalle convenzioni dell’epoca, all’ombra di padri e fratelli. Al
principio di questa vicenda ci si muove nel mondo del dilettantismo, così che le artiste sembrano non percepire un compenso in denaro per il loro
lavoro. Spesso sono monache, talvolta gentildonne. Quasi sempre figlie d’arte.