Dipingere come ragione di vita. Colpi di pennello spontanei come gesti magici per trasformare la materia pittorica in
“soggetti” capaci di liberare emozioni trasportandoli dall’universo intimo dell’artista a quello di ogni singolo osservatore. Niente accademie, niente
convenzioni, nessuna avanguardia artistica riuscivano a spezzare questo filo diretto e a chiudere la finestra tra il mondo esterno e la propria
interiorità. «Non dipingo per vivere. Vivo per dipingere», commentava Willem de Kooning rispondendo alle curiosità dei critici che lo vedevano aggredire
la tela con pennellate poderose e viscerali.
Chaïm Soutine era troppo ombroso e introverso per fornire qualsiasi intervista o spiegazione, e i suoi modelli, uniche persone che potevano vederlo
dipingere, lo descrivevano così: «Diventava rosso come un gambero, sgranava gli occhi e con le dita si palpava la gola e si carezzava il viso.
L’emozione sembrava stimolare in lui il senso dei colori e borbottava parole incomprensibili a denti stretti». Nessuno poteva interrompere il suo
processo creativo, tanto che gli stessi modelli erano costretti all’immobilità per ore senza fare pause. Racconta uno di loro: «Si lanciava da lontano,
e pan! pan! pan! sulla tela». Si dice che un giorno, nel furore di dipingere, si sarebbe slogato il pollice. Soutine era nato nel 1893 nel ghetto di
Smilavichy, una ventina di chilometri da Minsk, oggi Bielorussia e allora Russia zarista. Decimo figlio di un padre artigiano, aveva conosciuto fin da
piccolo l’estrema povertà e la fame. A Parigi arriva a vent’anni condividendo la vita miserabile degli artisti stranieri a Montparnasse.
De Kooning era approdato ventiduenne, come clandestino, negli Stati Uniti nel 1926, dopo essere nato e vissuto a Rotterdam, figlio di un
commerciante di birra. Per sostenersi farà l’imbianchino e solo più tardi aprirà uno studio a Manhattan, pur continuando a lavorare freelance in una
ditta di arredamento e progettazione di interni.