Davanti allo splendido lungomare di Alghero c’è un primato assoluto. Un singolare mostro architettonico: un
falansterio di vetro e acciaio, che non appartiene alla pur folta categoria del “non finito”, bensì a quella del “mai usato”. Infatti, è stato
(purtroppo) costruito; ma, a trentasette anni dai primi progetti, non ha ancora iniziato a funzionare. In compenso, continua a spillare pubblici
quattrini. Si chiama pomposamente Palazzo dei congressi; è tra i più grandi nella penisola, capace di ospitare milleduecento persone; ma degli eventi
che lo hanno visto protagonista, si ricorda quasi soltanto un “meeting” internazionale nel 2008 sulla
Gestione integrata per lo sviluppo sostenibile delle aree costiere del Mediterraneo e forse nient’altro. Dal 2002, i suoi spazi esterni sono
stati utilizzati per grandi concerti; ma da tempo, nemmeno più quelli vengono usati: il nulla assoluto; e per sistemare almeno quell’arena abbandonata
ormai da anni sono stati ora stanziati un milione e seicentomila euro. Un progetto di Alterazioni video, un collettivo di artisti milanesi sorto nel
2004, ha catalogato, in Italia, addirittura ottocento opere incompiute (trecentocinquanta solo in Sicilia), di cui sessantotto in Sardegna; questa, il
Palazzo dei congressi di Alghero, però, è ancora peggio di tante altre.
Ricapitoliamo. L’edificio sorge in una lingua di terra tra lo stagno di Calich, una pescosa laguna salmastra tra le più importanti zone umide
italiane, e il mare. Tra parentesi, qui, in passato, si è già perpetrato un gravissimo crimine culturale: dopo la guerra, quando la Rockefeller
Foundation estirpa la malaria dall’isola con una larga profusione di Ddt, per fare entrare nello stagno la chiatta che doveva spargerlo, vengono
abbattute dieci delle ventiquattro arcate di un ponte romano, ricostruito nel Medioevo, ai confini con Fertilia: ora, ne resta soltanto il moncone. In
antico, dunque, l’area del palazzo era malsana: denominata Maria Pia, dal 1864 al 1933 ha ospitato anche un bagno penale; i detenuti ne hanno iniziato
la bonifica. Allora, però, non portava il nome della primogenita di Umberto di Savoia, il “re di maggio”; si chiamava Cuguttu, vocabolo il cui etimo
resta incerto: l’allora principe di Piemonte vi inaugura un’azienda agraria nel 1934, e muta la denominazione. Ma la bonifica dell’Ente Ferrarese non ha
successo, e l’azienda neppure; recentemente, vi sono comparsi alcuni edifici di abitazione e un albergo. Del resto, la vicina Fertilia è stata l’ultima
delle «città di fondazione» volute dal fascismo per le bonifiche: primo progetto nel 1935, ma realizzata soltanto dai profughi giuliano-dalmati nel
dopoguerra.
Sta di fatto che, negli anni Ottanta del Novecento, si decide che Alghero, per rilanciare la propria immagine e l’economia, debba inserirsi in un
flusso allora assai promettente: quello delle destinazioni congressuali. Servono tuttavia vent’anni perché i primi progetti, del 1988, diventino un
cantiere. L’opera è inaugurata appena nel 2007, quando è già invecchiata: di simposi si parla assai meno, parecchie strutture e servizi non sono già più
a norma. Le leggi sull’edilizia hanno marciato più in fretta delle imprese costruttrici. I congressi sono pochissimi. Poi, nulla più: tutto chiuso e
sbarrato; le piantacce incolte che, fuori, la fanno da padrone. Rivestimenti e porte tagliafuoco, pur immacolate e senza alcun graffio, sarebbero da
rifare completamente, e non soltanto loro: anche le uscite di sicurezza, gli impianti, e parecchio altro.
Una parziale e temporanea sopravvivenza del complesso c’è stata grazie alle stagioni estive nella cavea esterna, per un decennio all’inizio del
nuovo secolo: i grandi nomi della musica leggera, da Baglioni, a James Brown, Dalla, Battiato, Zucchero, Pino Daniele, Paolo Conte, per limitarci
unicamente a qualche nome, hanno calamitato fino a seimila spettatori nelle loro serate. Dopo i concerti, però, i vandali, i ladri, la mancanza di
manutenzione: anche i cinquantaquattromila metri quadrati dell’area esterna cessano qualsiasi funzione, se non quella, davvero spettrale, di essere i
testimoni delle cattive coscienze pubbliche. Intanto, si calcola che il falansterio sia già costato oltre venticinque milioni di euro.
Il gigante abbandonato fin dalla nascita è su tre livelli: circa sessantamila metri cubi. Al piano terra, gli impianti tecnologici; al primo,
tremilaseicento metri quadrati, un foyer di oltre cinquecento metri, e l’auditorium, seicentosettanta poltrone con un palcoscenico di centocinquanta
metri quadrati, più un’altra sala da trecento posti. E, al secondo piano, un ridotto grande quasi come il precedente, con la galleria da trecentoventi
posti. Ancora sopra, la sala del ristorante (che non ha mai aperto), i camerini e gli uffici. Che spreco di spazio e di buone intenzioni rimaste però
sempre e soltanto tali!
Ma adesso – attenti, attenti – l’inutile falansterio sta forse per rinascere. Almeno in parte. Per quel complesso, si era vagheggiata prima una
destinazione alberghiera «con due o trecento stanze, non più», e «un centro congressi nella pancia»: magari, anche «una facciata pensata bene e meno
impattante»; poi, si è ipotizzata una «Casa Sardegna»: la solita «struttura polifunzionale integrata». Ma, alla fine, con i fondi disponibili, è nato
solo un «progetto definitivo di manutenzione degli spazi esterni»: richiederà la spesa di un altro milione e seicentomila euro. Il bando di gara
affiderà i lavori per ripristinare l’agibilità della cavea. Il falansterio rimarrà lì, come un ricordo della più stravagante e spendereccia inutilità:
una “cattedrale nel deserto”, di stampo turistico-congressuale, ora che l’epoca dei “meeting” affollati e più redditizi è, in modo forse definitivo,
tramontata.