Quando nel 1968 Paolo Gioli sbarca a New York è un pittore, ma la città americana lo esorta a tirare fuori la
cinepresa, usandola anche come macchina fotografica.
La città, il suo movimento, la sua frenesia, gli stimoli artistici che Gioli vive fino al 1969 nella Grande Mela gli fanno pensare a un cambio di
linguaggio, di medium. «Quando sono arrivato a New York», rivela in un’intervista, «la città stessa mi suggeriva: “Come fai ad andare avanti solo con il
disegno? Lo vedi fuori? Prendi la cinepresa” ». E così fece, estraendo dalla pellicola filmica e dall’immagine in movimento anche singoli fotogrammi per
farli diventare delle immagini statiche, delle fotografie. Infatti Gioli difficilmente si definisce “fotografo” e non sarebbe nemmeno corretto definirlo
tale. È a New York, quindi, che trova origine la sua poetica fatta di contaminazioni, di espressioni multimediali, quegli interventi artigianali e
gestuali sull’immagine che lo hanno reso un artista di fama internazionale. Basti vedere Tracce di tracce (1969), uno dei suoi primi film, in cui il
risultato su pellicola non è altro che la sua impronta digitale impressa ripetitivamente su inchiostro di pennarello fresco, e poi lavorata con carta
vetrata e altri materiali. Una traccia (la sua impronta) di una traccia (la pellicola cinematografica), per l’appunto.
In America, oltre a portare avanti la sua ricerca artistica, incontra casualmente, da Rizzoli, uno studente universitario di origini italiane come
lui, Paolo Vampa, con cui intesserà una profonda amicizia e che presto diventerà il suo sostenitore più fervente, il promotore della sua poetica. Sarà
proprio Vampa, suo futuro collezionista, a prestargli la prima macchina fotografica. Il fitto scambio intellettuale, culturale e affettivo tra i due
proseguirà a oltranza, oltre il periodo americano, fino a oggi.