Nel saggio che introduce la mostra alla Fondazione Magnani Rocca, Stefano Roffi stigmatizza la difficoltà di inserire
Joan Miró nell’alveo del surrealismo. Ma non meno problematico fu il suo rapporto con avanguardie come il cubismo o il dadaismo. Ancora giovane, il
pittore catalano si ispirava a pittori addirittura impressionisti e postimpressionisti quali Monet, Renoir e Cézanne (per esempio in Nord-Sud,
1917, Maeght Collection); ma era anche attratto da fauvisti, cubisti e cubofuturisti in opere come Nudo in piedi (1918, Saint Louis Art Museum)
o Nudo con specchio (1919, Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein- Westfalen). Quando Miró giunse a Parigi fra 1919 e 1920, critici d’arte e
scrittori come Maurice Raynal e Pierre Reverdy avevano in un certo senso “istituzionalizzato” il cubismo rendendolo più accademico. Scriveva nel 1920 il
pittore in una lettera: «Sforzo ordinatore del cubismo. Sotto la grande disciplina di Braque, Picasso, vive un’armata di parassiti». Per questo se ne
staccò – per esempio nella celebre Fattoria, dipinta fra 1921 e 1922, posseduta da Ernst Hemingway e ora alla National Gallery di Washington – in favore
di nuovo primitivismo che preludeva a una vera e propria rottura, come avrebbe confidato ad André Masson: «Romperò la loro [dei cubisti] chitarra».
Un aspetto fondamentale fu la sostanziale atipicità di Miró rispetto al surrealismo. E poi, a quale surrealismo? Quello più rivoluzionario di
Masson, Leiris, Desnos, Artaud, oppure quello più “istituzionalizzato” di Dalí, Aragon, Éluard, Breton? Il rapporto con quest’ultimo fu infatti assai
travagliato. Nel Manifesto surrealista dell’ottobre 1924 Breton – che evidentemente non lo conosceva ancora – non lo citò. Solo nel 1925 alla
Galerie Pierre di Parigi vi sarà l’adozione ufficiale di Miró da parte dei surrealisti, consacrata in luglio dalla pubblicazione, nel numero 4 di “La
Révolution surréaliste”, di alcune sue opere. Ma appena due anni dopo Breton e Aragon accusarono lui e Max Ernst di aver abbandonato gli ideali
rivoluzionari ed essersi dati agli “cheques”. La riconciliazione definitiva parve avvenire nel 1928 quando Breton, in
Le Surréalisme et la Peinture affermò che «Nessuno è bravo quanto lui [Miró] ad associare l’inassociabile, a rompere con indifferenza»; salvo
poi aggiungere: «Mi piacerebbe, e non posso non insistere su questo punto, che Miró non traesse da ciò un orgoglio delirante e non si fidasse solo di se
stesso, per grandi che siano i suoi doni». Che equivaleva a dire che Miró non doveva essere Miró.