Da tempo studiosi e investigatori indagano sui rapporti tra i furti d’arte e le “onorate società”. Benché se ne siano
perdute le tracce dal lontano 1969, si ricerca ancora la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio, sparita dall’oratorio
di San Lorenzo a Palermo. C’è qualche certezza sui boss che potrebbero averla detenuta e sulla possibilità, forse, di trovarla ancora integra: infatti,
molteplici sono, tra i mafiosi pentiti, le affermazioni al riguardo, anche se contraddittorie. Si cerca poi di capire come mai parecchi esponenti della
criminalità organizzata detenessero decine e decine di opere. Per citarne soltanto qualcuno, Beniamino Zappia, in carcere dal 2007 perché considerato il
collegamento a Milano tra alcune cosche delle due Americhe e in contatto anche con Vittorio Mangano, lo “stalliere” di Silvio Berlusconi ad Arcore,
possedeva trecentoquarantacinque tele e grafiche di famosi maestri. Centosette quadri aveva invece il “re dei videopoker” Gioacchino Campolo; una decina
di contemporanei Nicola Schiavone, il figlio del capo dei “Casalesi” campani tanto ben raccontati da Roberto Saviano; e nelle quattordici stanze
dell’appartamento davanti alla Fontana di Trevi, Ernesto Diotallevi, ex boss della banda della Magliana anche processato, e assolto, per la morte del
banchiere Roberto Calvi nel 1982 sotto il ponte dei Frati neri sul Tamigi, a Londra, ne allineava invece ventisette. Il suo preferito era Mario
Schifano, mentre Massimo Carminati, già dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, combattente nel Libano e per il quale è stata coniata, a torto o a
ragione, la dizione «mafia Capitale», predilegeva Mimmo Rotella e, in casa, deteneva sessantanove dipinti.
Ma ancora: il rapinatore Felice Maniero detto “Faccia d’angelo”, il capo della “mala del Brenta”, ha usato l’arte come ricatto. Rubava opere,
anche dalla Galleria estense di Modena, o dalla basilica di San Marco a Venezia (una collana di diamanti e pietre preziose dall’icona della
Madonna Nicopeia); e reliquie (come il mento di sant’Antonio da Padova, custodito nella basilica della città veneta). Capolavori che poi
permutava in agevolazioni, anche carcerarie, da parte dello Stato.
Né si possono scordare gli attentati mafiosi del 1993 ai beni artistici di Firenze (gli Uffizi), Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al
Velabro) e Milano (il Padiglione d’arte contemporanea). E chissà se è soltanto per un caso che due Van Gogh rubati nel 2002 ad Amsterdam, dal museo
dedicato all’artista forse più famoso al mondo (Spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta del 1882 e
Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen di due anni dopo), siano finiti nelle mani di Raffaele Imperiale, di recente arrestato a
Dubai, un “mammasantissima” della camorra, prima di essere ritrovati, a quattordici anni dal furto, in una sua base a Castellammare di Stabia, in
provincia di Napoli. Perché i sentieri che legano l’arte indebitamente sottratta ai maggiori esponenti della criminalità non sono certamente sporadici,
né tanto meno recenti.
Pagina nera
DI PADRE IN FIGLIO,
L’ARTE MI PIGLIO
Beniamino Zappia, Gioacchino Campolo, Nicola Schiavone, Ernesto Diotallevi, Felice Maniero, Francesco Messina Denaro, “don ciccio”, e il figlio Matteo, latitante dal 1993, sono solo alcuni nomi della criminalità organizzata, che possedevano arte assai spesso rubata. Un “gioco” antico che pare inarrestabile. Diversi capolavori sono stati recuperati ma c’è ancora molto da fare e da indagare.
Fabio Isman