Il gioco del destino e della fantasia (Wheel of Fortune and Fantasy) è un film unico diviso in tre
parti, oppure sono tre corti accomunati da un titolo e da un fil rouge ma vedibili separatamente? Non è il primo caso. Si pensi solo a certi progetti
degli anni Sessanta di cui il nostro Ro.Go. Pa.G. è un esempio eclatante ma, in quel caso, già la presenza di vari registi (Rossellini, Godard, Pasolini
e Gregoretti) regalava ampia autonomia a ogni spezzone. Non a caso il più celebre, La ricotta, di Pasolini, con Orson Welles come attore
protagonista, ha finito per avere nel tempo la meglio su tutti gli altri e per vivere di vita propria.
È probabile che il film di Ryüsuke Hamaguchi, Orso d’argento a Berlino 2021, sia ben più che una serie di episodi, nonostante nessun attore
ricorra e nessun tema pervada in modo certo l’opera. Ognuna delle parti oscilla tra i quaranta e i quarantacinque minuti, ma cos’è che realmente
definisce un corto e cos’è che permetterebbe di qualificare l’intero film come lungometraggio, benché atipico? È probabile che uno dei meriti di questo
particolare film sia proprio quello di suscitare una simile domanda, lasciando la risposta a ogni spettatore. Certo però che i tre pezzi che lo
compongono valgono meno, se presi da soli, rispetto a quanto valgono insieme.
Il tema del passato, della nostalgia, del tempo, si sviluppa in modo più simile e più tradizionale nei primi due mentre sembra subire
un’accelerazione distopica e allucinata nel terzo, il più interessante se considerato singolarmente, ma anche quello cui i due precedenti ci
indirizzano. In un futuro (o in un presente parallelo, si potrebbe dire) in cui ogni memoria elettronica è collassata (niente cellulari che funzionino o
social o rete) anche la memoria emotiva delle persone, la loro capacità di ricordare fisionomie e incontri decisivi sembra essere andata in tilt senza
più quei supporti.
Hamaguchi è implacabile nella sua letterarietà (in particolare nel secondo episodio), come nella sua messa in scena cinematografica con l’aiuto di
piani sequenza, specie quello della scena nel taxi del primo episodio. Il tutto sembra una versione stralunata e giapponese di certi film di Éric
Rohmer, in cui l’oscillazione tra caso e destino prende la forma dell’incontro, del reincontro, della parola ipertrofica. Per chi lo apprezza, il quasi
contemporaneo Drive my Car dello stesso Hamaguchi, tratto dall’omonimo racconto di Murakami Haruki dalla raccolta Uomini senza donne,
sarà una vera esperienza.
Cortoon
RICAMI
GIAPPONESI
di Luca Antoccia