Grandi mostre. 2
Saul Steinberg a Milano

UN AFORISTA
GRAFICO

Sintetizzare con semplicità la complessità non è da tutti. Steinberg l'ha fatto con il disegno, una sorta di racconto visivo attraversato da una linea riconoscibile, lieve, che mescola arguzia, intelligenza e graffiante immaginazione. Ce ne parla qui il co-curatore della mostra alla triennale.

Marco Belpoliti

Nel 1978 si aprì presso il Whitney Museum di New York la prima grande mostra di Saul Steinberg. Fu un importante riconoscimento per l’artista americano, nato a Râmnicu S̆arat (Romania) nel 1914 e morto a New York nel 1999. Negli Stati Uniti Steinberg era arrivato nel 1942 proveniente dall’Italia, dove aveva studiato architettura e iniziato a disegnare per le riviste umoristiche “Bertoldo” e “Settebello”. Ci era rimasto sette anni, poi era fuggito dopo essere stato internato come ebreo (i genitori erano membri della borghesia ebraica di Râmnicu S̆arat).

L’esposizione al Whitney Museum fu accompagnata da un catalogo con un testo di Harold Rosenberg, il critico più importante della scena americana in quel momento. Nel suo saggio, Rosenberg riporta una serie di dichiarazioni rese da Steinberg nel corso della loro frequentazione durante i decenni precedenti. La più interessante riguarda la collocazione di Steinberg nel mondo dell’arte: «Non appartengo propriamente né al mondo dell’arte né dei fumetti, nemmeno a quello delle riviste, perciò il mondo dell’arte non sa dove piazzarmi». 


Quello del grande disegnatore romeno è stato un cammino difficile, non tanto per la sua arte, ma per l’incapacità di considerarlo un artista nel senso pieno del termine da parte di critici, galleristi, collezionisti, direttori di musei. 


L’aver collaborato per molti anni alle pagine della più importante rivista culturale americana, “The New Yorker”, con un numero altissimo di disegni e copertine (oltre ottanta), lo rendeva estremamente popolare tra il pubblico colto, e non solo. L’ammiravano tutti coloro che vedevano i suoi disegni in quelle pagine, o sui libri che a partire dal 1945 andava pubblicando in tutto il mondo. Tra i suoi estimatori ci furono a quel punto anche autori come Barthes, Calvino, Ionesco, Nabokov, Bellow, Updike, Primo Levi e molti altri. Nessuno dei suoi ammiratori si era mai posto il problema se fosse o meno un artista; per tutti era ed è un prodigio di comicità, sarcasmo, intelligenza e pungente critica sociale. Un autore misterioso e inafferrabile, e al tempo stesso godibilissimo per chiunque capisca il disegno, ovvero pera tutti. Tuttavia il mondo dell’arte non l’ha incluso a lungo dentro i propri confini; così nei volumi di storia dell’arte non c’è nemmeno una riga dedicata a lui. Eppure, già in quel 1978, Steinberg era tra i tre o quattro artisti del Novecento che avevano lasciato una traccia indelebile nel campo dell’invenzione del segno. In realtà questo meraviglioso autore, insieme semplicissimo e complesso, così facile da afferrare e così arduo da catturare in una sola definizione, non si è mai molto preoccupato dello statuto della sua arte, o delle possibili definizioni che si potevano dare di lui. Era perfettamente conscio di vivere nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, come l’ha definita all’inizio del XX secolo Walter Benjamin, dal momento che disegnava su periodici diffusi in milioni di copie e la sua arte arrivava nella forma della riproduzione nelle mani di tutti. L’unico artista cui Steinberg può essere paragonato è Andy Warhol che ha guardato sin da ragazzo all’espressione creativa di questo incredibile disegnatore romeno-italiano-americano.

Per capire l’opera di Steinberg nelle sue molteplici forme non serve molto: basta solo guardarlo e riguardarlo, innumerevoli volte, perché solo così si riesce a penetrare nel suo mondo.


NEI SUOI TRATTI LA LINEA SEMBRA ASSUMERE UN’IDENTITÀ AUTONOMA, TANTO DA DISEGNARSI DA SOLA. LA MANO APPARE COME COMANDATA DALLA LINEA STESSA