UNA BRIOGRAFIA
DA RISCRIVERE

«Noi non sappiamo nemmeno dove stia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, e come si chiami».
Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, 1864

Giunto in vita all’apice della notorietà, quando, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, divide con Warhol il primato di artista più celebre al mondo, Beuys oggi non gode di una fama indiscussa, al contrario. Possiamo anzi dire che un manto di perplessità e di riserve avvolge la sua attività, in considerazione di ciò che abbiamo scoperto sulle fantasiose invenzioni autobiografiche ribadite per decenni da critici e giornalisti, e non solo. La prima domanda, dunque, è come avvicinare Beuys oggi: se come autore di installazioni monumentali, il cui funzionamento è spesso accompagnato da suoni e rumori di vario genere, «macchine celibi» tanto buffe o enigmatiche quanto imponenti; come performer tra i più emozionanti, che ama, sul palco, la compagnia di animali; come attivista o “provocatore”, quale lui stesso si definisce, sia pure in un senso del tutto particolare, assertore del principio che «ogni uomo è un artista» e teorico della “Terza via” tra capitalismo occidentale o comunismo sovietico; come credente sorretto da una fede militante, antroposofico cristiana, determinato ad assumere ruoli pastorali e apologetici; o infine come antiartista, pronto a riconoscere la sua diffidenza per tutto ciò che è semplicemente estetico, a rifiutare il prestigio dell’“opera d’arte” e a promuovere un ampliamento della nozione di arte, tale da includere pensiero e parola. O invece in nessuno di questi modi.