LA SCENA DELLE DONNE

Qualcuno ricorda - non è poi passato troppo tempo - quando ogni immagine di bella donna anche se appena discinta o solo un tantino scollacciata, diventava una cortigiana, o almeno una pin-up?

È toccato a quadri famosi come le Due dame di Carpaccio, in attesa dei mariti a caccia in laguna, o come la Venere di Urbino, chiamata da Tiziano e dalla corte roveresca ad ammaestrare una ritrosa moglie bambina, senza contare il seguito di innumerevoli sorelle dell’invadente dea dell’amore. Per non dire di eroine bibliche come Salome o Giuditta, o protagoniste di storie leggendarie e letterarie come Lucrezia, o ancora - particolarmente sfortunate - decine di Maddalene più o meno pentite. Del resto, se già le storie agiografiche provocavano insormontabili imbarazzi, figuriamoci poi cosa poteva accadere al cospetto dell’allegoria funzionale all’ideologia dominante del matrimonio. 


Beninteso, non è detto che nella pittura veneziana del Cinquecento ogni dipinto di bella donna sia un ritratto, anche quando tagliato secondo modalità, tipologia e impaginazione di ritratto: il riferimento mitologico, in particolare, impone un variabile quoziente di travestimento idealizzante. Per esempio, Flora non può essere troppo individualizzata, perché il ritratto deve lasciare spazio al modello. Si tratterà, naturalmente, di Flora moglie di Zefiro, sinonimo di concordia maritale e di fecondità naturale secondo la tradizione ovidiana (Fasti, V, 201-212): la riconosciamo, e la nominiamo, dall’offerta metaforica del mazzetto primaverile di fiori (roselline, margherite, violette, gelsomini, primule, ranuncoli e quant’altro). 


Vittore Carpaccio, Due dame, (1490 circa), particolare; Venezia, Museo Correr.