E piangeva la morte di Marie Lloyd (1922), la più grande interprete del music hall, che se ne andava proprio mentre Murry scriveva il suo testo. Anche l’amico Thomas Stearns Eliot, negli stessi giorni, dedicava uno scritto alla scomparsa di Marie Lloyd, unica attrice con cui la classe operaia fosse stata capace di identificarsi, di unirsi a lei in coro e diventare così parte dello spettacolo, mentre il ceto medio, «moralmente corrotto», non aveva idoli paragonabili; anzi, non ne aveva alcuno.
In realtà il lamento sul progressivo snaturarsi del music hall, per colpa di chi voleva renderlo rispettabile, purgandolo di quella “volgarità” fondamentale per la sua autenticità e il suo radicamento sociale, si era levato poco più di vent’anni prima per voce di Max Beerbohm, caricaturista, scrittore e critico dell’ambiente decadente degli anni Novanta raccolto attorno allo “Yellow Book”, la rivista di Aubrey Beardsley, che pubblicò varie riproduzioni di opere di music hall di Sickert. Fra gli appassionati del music hall, Beerbohm, oltre a quello di Sickert, fa anche altri nomi di intellettuali, fra cui Arthur Symons e Frederick Wedmore, uno dei primi critici a sostenere Sickert.
Nella pittura di music hall di Sickert si possono individuare tre fasi: quella iniziale si situa nella seconda metà degli anni Ottanta, indizio di una passione precoce per il tema; segue una ripresa fra 1894 e 1898; Sickert, infine, ricomincia a dipingere music hall dopo il ritorno a Londra, tra 1906 e 1909. Dapprincipio si concentra sugli attori e le attrici: i suoi biografi lo ricordano mentre fa la fila all’ingresso dei locali per ottenere sempre lo stesso posto e quindi il medesimo punto di vista, insegue le attrici preferite da un locale all’altro per riuscire a cogliere con esattezza i particolari dell’abbigliamento e la prossemica, o chiacchiera “en souplesse” con Bessie Bellwood o Katie Lawrence, due fra le interpreti predilette.