Forse qualche visitatore rimarrà stupito di trovare, all’inizio del percorso della mostra su Vasilij Kandinskij, una serie di oggetti in legno intagliati e decorati in colori vivacissimi: una ciotola con i bordi che raffigurano contadini danzanti, una coppia di cavallini appena sbozzati e dipinti di rosso che tirano una carrozza giocattolo, una bambola, alcune conocchie per filare la lana con motivi geometrici in giallo rosso e blu, una manciata di fusciacche tessute nei colori dell’arcobaleno, una raccolta di icone e di stampe popolari con illustrazioni di santi e fate e cavalieri. Sono gli oggetti che Kandinskij cominciò a raccogliere nel 1889 in Vologda, una regione sperduta nella Russia settentrionale, dove era stato inviato dall’Associazione imperiale di scienze naturali con l’incarico di svolgere una ricerca etnografica.
Arrivò nei villaggi dei sirieni, un piccolo popolo in cui si mescolava sangue russo e finlandese. Avrebbe in seguito rievocato nelle memorie lo stupore che lo colpì sulla soglia delle loro isbe: «Il tavolo, le panche, le stufe enormi, gli armadi, le credenze e ogni altra cosa erano ricoperti di decorazioni coloratissime. Ovunque, sulle pareti, erano appese stampe rustiche che raccontavano di battaglie, di canzoni, e di un leggendario cavaliere. Entrai nella casa come in un dipinto e ne divenni parte». Da queste impressioni presero avvio le ricerche su un’arte nuova: «Per tanto tempo ho cercato di fare in modo che gli osservatori passeggiassero nei miei quadri, volevo costringerli a sparire addirittura lì dentro».
Vasilij era nato a Mosca il 4 dicembre 1866, da un mercante di tè che veniva dalla Siberia orientale e da una moscovita con ascendenze tedesche. Portò a termine gli studi classici, imparò a suonare il pianoforte e il violoncello, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Si appassionò all’economia politica, al diritto romano e a quello penale, alle teorie di Cesare Lombroso, all’etnografia. «Ma questo entusiasmo impallidiva di fronte all’arte, la sola che avesse il potere di trasportarmi fuori dal tempo e dallo spazio». Tuttavia aveva deciso di dedicarsi al diritto, e di affrontarlo con metodo scientifico.
Poi accaddero tre avvenimenti che gli cambiarono il corso della vita. Il primo fu la mostra degli impressionisti francesi a Mosca, dove vide i celebri Covoni di Claude Monet. «Mi trovavo di fronte a un dipinto che avrebbe dovuto, secondo quanto diceva il catalogo, rappresentare dei covoni e che tuttavia io non riuscivo a riconoscere come tali. Mi era però completamente chiara l’intensità della tavolozza. La pittura si rivelava in tutta la sua fantasia e il suo incanto. Per la prima volta, sentii nascere il dubbio sull’importanza dell’oggetto come elemento indispensabile del quadro».
Il secondo avvenimento fu il Lohengrin di Wagner al teatro di corte. «La musica del preludio è una perfetta raffigurazione della mia Mosca incantata sul far della sera, con il sole già basso e al colmo della potenza cromatica. Come il “forte” finale di un’immensa orchestra, Mosca risuona vittoriosamente. Il rosa, il lilla, il giallo, il bianco, il turchino, il verde pistacchio, il rosso fiamma delle case e delle chiese si uniscono al coro insieme al prato di un verde folle e al mormorio profondo degli alberi, e alla neve dalle mille voci canore e all’allegretto dei rami spogli e infine alla cintura della muraglia rossa del Cremlino severo, dritto, silenzioso. E al di sopra di tutto, come un grido di trionfo, come un alleluia immortale, scoppia la linea bianca, intagliata, rigida, del campanile di Ivan Velikij. La testa d’oro della sua cupola tende verso il cielo una nostalgia acuta ed eterna. Il pittore che riuscisse a rendere questa ora raggiungerebbe la felicità più grande».

