Grandi mostre. 5
Sorolla a Milano

la felicità
è un raggio di sole

Palazzo Reale, a Milano, celebra con una mostra il centenario della morte di uno dei massimi pittori spagnoli del periodo fine ottocento-primo novecento. Modernista e innovatore, costruisce su una luce abbagliante la sua personale risposta all’impressionismo.

Claudio Pescio

Chi si occupava di comunicazione a Londra nell’estate del 1908 non aveva paura delle parole: per la mostra di Joaquín Sorolla y Bastida alle Grafton Galleries la definizione riservata all’artista fu «il più grande artista vivente al mondo». Magari la valutazione è un po’ esagerata, ma prima di Picasso era anche, praticamente, il solo artista spagnolo del tempo noto fuori dai confini iberici. 


Nato nel 1863 a Valencia, Joaquín non aveva dovuto faticare molto per avere successo; a vent’anni vedeva il suo talento già ampiamente riconosciuto, in Spagna: nel 1884 il governo acquista una sua opera, Il 2 maggio 1808, per destinarla al Prado. Giovanissimo, ha occasione di soggiornare tre anni in Italia. Al suo rientro sposa Clotilde García del Castillo, con la quale condividerà l’intera esistenza. Per qualche anno, agli inizi, lavora nell’atelier del suocero, apprezzato fotografo. Si stabilisce a Madrid ma continua le sue frequentazioni italiane, espone ovunque vincendo premi e medaglie per i suoi soggetti religiosi e storici. Nel 1901, a Parigi, riceve la Legion d’onore. 


Tutto ciò rimanendo fedele a uno stile naturalista, sensibile al movimento e alla luce, e debitore - nelle inquadrature, nello studio delle luci, per la ricerca dell’istante giusto da cogliere - dell’esperienza maturata nello studio del suocero. Una pittura leggera e “facile”, luminosa, consapevole dei modelli italiani, di Velázquez, Goya e della grande tradizione romantica. In Francia è colpito dai naturalisti della scuola di Barbizon; poi, grazie ad amici spagnoli come Aureliano de Beruete y Moret scopre gli impressionisti e la pittura “en plein air”. Di sicuro si terrà sempre abbastanza lontano da cubisti, futuristi e astrattisti. Piuttosto, grazie alla frequentazione di scrittori come l’amico Benito Pérez Galdós, negli anni Novanta imprime una virata significativa alla sua scelta dei soggetti, che si spostano sui temi sociali: poveri, prostitute, contadini, malati. In Triste eredità (1899) ritrae un gruppo di bambini affetti da disabilità accompagnati da alcuni religiosi sulla spiaggia per un bagno di mare; un soggetto che voleva attirare l’attenzione sulla piaga delle malattie provocate nei figli da malattie veneree o alcolismo dei genitori (la “triste eredità”, appunto). Dipinge come un cronista, dal vivo, sulla base di schizzi che poi rielabora in studio. Sente soprattutto la necessità di raccontare la dura vita dei pescatori della sua città, Valencia, e lì l’aggettivo “luminoso” non basta: il biancore delle vele, la luce del sole, i riflessi sull’acqua si fanno abbaglianti; ed emerge soprattutto la sua capacità di trovare la luce nelle ombre. Quadro esemplare di questa serie è Cucendo la vela (1896; Venezia, Ca’ Pesaro), dove la massa candida della tela domina la scena da protagonista, in un intreccio di pieghe, panneggi, lame di luce, sfumature che trascolorano dal bianco assoluto delle parti in pieno sole al giallognolo delle zone d’ombra, fino al terra di Siena. Il dipinto viene esposto alla Biennale di Venezia del 1905. Non cerca simbolismi, la sua adesione al soggetto è immediata, sentimentale.


UNO STILE FOTOGRAFICO NELLO STUDIO DELLE LUCI, DELLE INQUADRATURE, DEL MOMENTO GIUSTO PER “SCATTARE”


La spiaggia di Valencia nella luce del mattino (1908).


Cucendo la vela (1896), Venezia, Ca' Pesaro - Galleria internazionale d'arte moderna.


Pomeriggio sulla spiaggia a Valencia (1904);


Triste eredità (1899), Valencia, Fundación Bancaja - Colección de arte.