La pagina nera
Keith Haring a Pisa
Il problema di un sito
ritrovato avvilito
Fabio Isman
«Sibari non è soltanto un parco archeologico e un museo: è soprattutto una scommessa, che riguarda il territorio e gli sforzi per qualificarsi, e il ripristino della legalità», spiega l’archeologo Filippo Demma, casertano, cinquantun anni, allievo di Fausto Zevi, che lo dirige da poco più di un anno, insieme con il polo dei musei calabresi. Demma è un irriducibile: anche grazie a una rete di amicizie e collaboratori cerca di risolvere tante tra le numerose difficoltà di fronte alle quali si è improvvisamente trovato, e che racconta qui.
Buona parte del sito di Sibari, in provincia di Cosenza, è invaso dalla falda aquifera: sta a sei metri sotto il suo livello. «La drenano dieci pompe; ma sono antiche di quarant’anni. Hanno avuto soltanto costose manutenzioni, e non sono mai state rinnovate. Ora - per fortuna nella parte di scavi chiusa al pubblico - quattro hanno smesso di funzionare. Esisteva un progetto per sostituirle, ma non se n’è fatto nulla; abbiamo disegnato un nuovo “masterplan” per la soluzione definitiva del problema, a un livello assai progredito, con l’aiuto di ingegneri e tecnici specializzati. Di fronte all’emergenza e al maltempo, però, siamo stati costretti a provvedere d’urgenza alla sostituzione della maggior parte tra i meccanismi che avevano smesso di funzionare».
La Regione, all’inizio dell’anno, non ha rinnovato i contratti a ventiquattro tirocinanti formati in due anni di lavoro e impegnati nell’area: «Per poco, siamo rimasti chiusi anche a causa della recrudescenza pandemica che ha assottigliato le nostre stesse fila. Adesso, anche grazie alle possibilità gestionali garantite dall’autonomia del sito, è tutto riaperto e la situazione è sotto controllo; speriamo, dopo l’estate, di riottenere il personale che, a tempo parziale, operava prima con noi». Ma, ancora: «Invece degli undici funzionari previsti, ne possiedo appena uno; e circa la metà tra i custodi in organico. Anche il museo di Amendolara fa parte del nostro sito; è lontano trenta chilometri: ogni giorno lo raggiunge qualcuno che parte da Sibari, e il Comune ci aiuta a tenerlo aperto. A Sibari, invece, un’associazione ci dà una mano per l’accoglienza».
Il luogo è tra i più ricchi della Magna Grecia: fondato nel 710 a.C., è vissuto fino al VII secolo d.C. Da circa un annetto è diventato museo autonomo. E subito, a complicare le cose, ci si è messa anche la burocrazia: «Sono stati necessari cinque mesi per ottenere un servizio di cassa, e poter quindi ricevere i fondi; sugli scavi, intanto, era cresciuta una foresta vergine».
Il museo possedeva un ordinamento antico, datato, superato: «Con vetrine degli anni Novanta, e supporti didattici di quattro tipi diversi. Le nuove sale, terminate all’indomani dell’alluvione del fiume Crati, che nel 2013 aveva sommerso l’intero sito, non erano mai state utilizzate. Le abbiamo aperte a dicembre, rimodulando un progetto da cinquecentomila euro già appaltato, in collaborazione con il Segretariato regionale per la Calabria, che curava la procedura, e la ditta aggiudicataria che, su nostra richiesta, ha rimodulato gran parte dell’offerta, le cui tecnologie erano già obsolete. Tanti mi hanno dato una mano; adesso esiste un allestimento provvisorio, ma moderno; risistemate alcune sale, e altre lasciate come erano».

