Tutti i registi che hanno lasciato un segno nel cinema italiano sono prima o poi entrati nel lessico con un aggettivo.
Così, c’è un perfezionismo estetico “viscontiano” come c’è un che di grottesco e onirico che si fa prima a definire “felliniano” o come ci sono certe periferie “pasoliniane”. Perfino certe intemperanze sono definibili “morettiane”. Nonostante tutto il suo successo stenta invece ad affermarsi, o a godere di contorni ben delineati, l’aggettivo “sorrentiniano”. Perché? Sorrentino ha talento da vendere (e tanto più dopo È stata la mano di Dio, candidato agli Oscar come miglior film straniero nel momento in cui andiamo in stampa): creare e gestire personaggi principali e scene madri sono il suo punto forte. Solo che ai primi si accompagna una proliferazione bulimica di figure di contorno che a volte finiscono per togliere ai personaggi principali aria e spessore e nelle sequenze chiave si nota una cronica incapacità di chiuderle (a titolo di esempio la sequenza tra Harvey Keitel e Jane Fonda in Youth - La giovinezza e quella col personaggio Antonio Capuano in È stata la mano di Dio). Non c’è ancora un aggettivo “sorrentiniano” perché la sua cifra è in fondo il “pastiche”: nel doppio senso di opera in cui si cita deliberatamente lo stile di uno o più autori, specie Fellini (in È stata la mano di Dio quello di Amarcord), e di tecnica compositiva che fonde sottocodici e registri diversi. “Pastiche” strutturale e stilistico dunque. E l’irruzione in quest’ultimo film di un forte elemento autobiografico, senza rinunciare ai precedenti aspetti, non ha fatto altro che rendere più evidente la natura a intarsio delle sue opere in cui alcune trovate, anche bellissime, finiscono per sembrare avulse, inconcludenti. Certo che alcune immagini (per esempio le sequenze nella piscina di Youth, caratterizzate da uno spiccato nitore tra Hockney e gli iperrealisti), con la loro grande bellezza, fanno venir voglia di passar sopra a ogni opacità.
In Youth, come nella Grande bellezza, la fotografia di Luca Bigazzi compie spesso il miracolo di calamitare l’occhio dello spettatore e di nascondere la strana eterogeneità dei suoi film dei quali Il divo resta il suo vero autentico capolavoro, forse perché in quel caso il registro realistico e quello grottesco devono convivere programmaticamente fin dal titolo e dal personaggio centrale che unifica la narrazione.
