«Della Praga che ha decantato Apollinaire e del suo magnifico ponte con le statue in siepe che conduceva da ieri a sempre, delle sue insegne luminose dall’interno e non dall’esterno - con il Sole nero, la Ruota d’oro, l’Albero d’oro, e tant’altro - del suo orologio le cui lancette, fuse nel metallo del desiderio, giravano al contrario, della sua strada degli Alchimisti e, soprattutto, del bollore d’idee e di speranze, più intenso là che dovunque altrove, di questi scambi appassionati al fiore dell’essere che aspira a fare un tutt’uno della poesia e della rivoluzione, mentre i gabbiani agitavano in ogni direzione la Moldava per farne sgorgare le stelle, cosa ci resta? Ci resta Toyen»(1).
André Breton, che ha scritto con il suo incantato stupore le più sentite parole sull’arte di Toyen, riconosceva nell’opera della pittrice un ultimo baluardo di libertà, nel segreto intreccio di sensualità e desiderio, timore e meraviglia, sete d’indipendenza e forza dell’immaginazione. Toyen usa la tela come un sismografo dell’onirico, vi registra l’eros e la vertigine di un misterioso pulsare di forme evanescenti, apparizioni confuse, spettri rilucenti tra tetre foreste e paesaggi lunari. Evocazioni dei reconditi argini della psiche, le sue immagini cercano un’eco nella realtà, imponendovisi con turbamento e seduzione.
