Treno Roma-Milano (1991). Quattro donne sono sedute. Le due, in primo piano, dormono: l’una, appoggiata allo schienale del sedile, braccia conserte; l’altra, piegata su un fianco, riposa con la testa adagiata sulle mani sopra un bracciolo. Dietro di loro, al centro, la terza guarda di fronte a sé con atteggiamento forse riflessivo o forse interrogativo; l’ultima, sullo sfondo, a ridosso del finestrino, con il capo reclinato in avanti pare rivolgere la sua attenzione su qualcosa in particolare: la sua postura è rilassata e la sua espressione sembra accennare a un sorriso.
Una composizione mossa e complessa: tra i soggetti ritratti e il contesto c’è indipendenza ma anche interdipendenza. I livelli narrativi vivono di vita propria ma, come suggerisce l’immagine, li vediamo altresì intersecarsi, sovrapporsi, dialogare. Non c’è tempo da perdere, bisogna intervenire, adesso. Gianni Berengo Gardin entra in azione e scatta.
«Io, in fondo, non sono un intellettuale, sono semplice e totalmente istintivo»(*), leggiamo nell’autobiografia realizzata con la preziosa collaborazione della figlia Susanna. Certo, l’istinto è fondamentale per il fotografo ma altrettanto sono il pensiero, l’ascolto, l’attesa e la pazienza. Lui, autore e non artista, “artigiano” che fin da ragazzo scopre il piacere di lavorare con le mani (modellini di aerei e barche di legno sono state le sue costruzioni preferite) e che per moltissimi anni ha stampato da solo arrivando in determinati periodi a rimanere nella sua camera oscura per quindici ore consecutive.
Nato nel 1930 a Santa Margherita Ligure (Genova), Berengo Gardin è però legato da sempre a Venezia. Una città che ha nel cuore e nel Dna. Suo padre era veneziano così come i bisnonni e i nonni, nella casa dei quali (in piazza San Marco) ha spesso trascorso le vacanze. Abituato al bello, quindi, sin da piccolo. L’aspetto estetico fine a se stesso, tuttavia, non è ciò che gli preme. Vuole documentare, denunciare, testimoniare, osservare, registrare. E lo vuole fare con quello che gli è più congeniale: il bianco e nero. Un terreno che considera ideale per lo sviluppo della trama visiva, che gli permette di mostrare e definire la realtà per quello che è senza aggiungere o togliere niente. Un campo per così dire “neutro”, privo di interferenze. Netto, marcato, adatto a realizzare reportage sociali, i progetti che più di tutti ama. Non dobbiamo dimenticare poi che è nato e cresciuto con il bianco e nero: a cominciare da quello declinato nel cinema, suo grande interesse.

Treno Roma-Milano (1991).
(*) G. Berengo Gardin, In parole povere, Roma 2020, p. 180.