«Perché fare un’altra mostra?», si chiede l’artista e direttore artistico della dodicesima edizione della Biennale di Berlino, Kader Attia, all’apertura della conferenza stampa il 9 luglio 2022. Secondo Attia, artista franco-algerino che vive a Berlino da diversi anni, l’arte serve come una bussola in un mondo con troppi punti ciechi. Se scegliamo di fare un’altra mostra, allora è fondamentale che funzioni come una bussola, per rendere visibile una mappa del mondo che abbiamo ereditato dal passato. Invece di mettere in questione un modo frenetico e capitalistico della produzione che ha sempre a che fare con una certa attitudine a estrarre e “colonizzare”, Attia cerca piuttosto di analizzare la governamentalità, le pratiche attraverso cui i soggetti sono stati governati e consumati nel nome del progresso liberale. Still, present (“Ancora, presente”, ma traducibile anche con “Fermo immagine, presente”), il motto della Biennale berlinese, sottolinea la necessità di continuare e persistere in una riflessione sul difficile passato della modernità europea.
Attraverso quattro assi portanti (la decolonizzazione dell’ecologia, del femminismo, del patrimonio culturale, del fascismo/colonialismo), Attia e le curatrici da lui invitate - Ana Texeira Pinto, Đỗ Tường Linh, Marie Helene Pereira e Noam Segal - cercano di evidenziare l’invisibilizzazione di alcuni dei processi più violenti della modernità occidentale. Ci sono ferite gravi, traumi che persistono nel presente, soprattutto per le popolazioni minoritarie e postcoloniali. Il fatto che ci siano ancora problemi irrisolti non è un incidente; queste cicatrici non possono essere guarite perché non le vediamo, non le trattiamo: confrontarsi con il processo di cicatrizzazione significa rendersi conto della responsabilità dell’Occidente nell’universalizzazione brutale delle ideologie di libertà, uguaglianza e fraternità.
L’installazione di Nil Yalter, per esempio, apre la mostra nella sede principale del Kunstwerke (KW) - dove la Biennale di Berlino è stata fondata quasi venticinque anni fa - con narrazioni “minori” di donne turche e portoghesi rese invisibili da una «maggioranza metropolitana» (Nikita Dhawan) e dalla democrazia rappresentativa.


