XXI secolo 2 
Renn nel padiglione della Namibia alla Biennale di Venezia

SOLITARIE PIETRE
DEL DESERTO

Viaggio nel deserto del Namib, habitat di antiche pitture rupestri, piante preistoriche, foreste pietrificate. Dal 2014 ospita ventitre sculture di pietra, disseminate in un’area vastissima.
Le ha realizzate Renn, che ne ha portate altre nel suggestivo padiglione della Namibia alla Biennale di Venezia, nell’Isola della Certosa.

Gloria Fossi

Namibia, Kaokoland, 12 ottobre 2000. Siamo quasi in Angola, sulla rotta che a ovest delle Epupa Falls e del villaggio di Opuwo s’inoltra nel deserto che si estende verso sud per oltre mille chilometri, parallelo alla costa atlantica. Il pick up 4x4 avanza lentamente. Un mese prima abbiamo cominciato a risalire da Windhoek, capitale della Namibia, che confina con il Sud Africa a sud e il Botswana a est.
Dopo soste e incontri di ogni genere siamo giunti a Opuwo, circa settecento chilometri a nord. La ricordo come una lunga strada di terra battuta, unico centro abitato di un’area molto vasta. Uno spaccio cinese, un ospedale, baracche.
Bambini ovunque. Opuwo vuol dire “la fine”.
Basta allontanarsi da qui, verso ovest, per provare quell’arcana sensazione d’immensità, di eterno, di limite estremo, divenuti luogo comune, emblemi dell’essere umano occidentale di fronte alla Natura, in qualunque deserto.
Sensazioni simili a quelle che ho percepito a Uummannaq, oltre il circolo polare artico, sorvolando i maestosi ghiacci della Groenlandia oppure l’immensa distesa del sud Pacifico. Da Opuwo ci spostiamo in un villaggio Himba. Ci sono solo donne e bambini. Gli uomini sono lontani, da settimane, con il gregge, in cerca di verde. È la stagione arida, non c’è un filo d’erba. Il fuoco è sempre acceso. I bambini si accalcano sulla soglia della capanna dell’anziana prima moglie del capo tribù. Le giovani madri pure. Parlano con i “click”, schiocchi con la lingua. Ci fa da interprete una ragazza con un neonato in braccio, venuta con noi da Opuwo(1). Come faccio a spiegare che no, noi due non abbiamo mandrie? Mi vergogno e rispondo che abbiamo mille pecore e quattro figli (non è vero, e comunque sono troppo pochi). Sto bene con loro, anche se alcuni bambini hanno la poliomielite. Un neonato piange sommessamente per una ferita al piedino. Tentiamo di disinfettarlo con una salvietta. Non c’è acqua, qui. Un aereo lascia nel cielo privo di nuvole una lunga scia. L’anziana mi chiede come sia possibile viaggiare in una scatola di latta tutti assieme, coppie o famiglie di tribù diverse. E se cade, cosa passa per la testa a chi vive gli ultimi attimi volando giù dal cielo?
Ce lo siamo chiesti tutti, credo. Gli himba sono una delle numerose etnie, quella rimasta più isolata, della Namibia, estesa in un territorio tre volte almeno superiore all’Italia.
Un paese di grande fascino che suscita molte nostalgie.
Ho sempre pensato che non avrei avuto occasione di parlarne, come storica dell’arte. Mi è poi capitato, invece, a proposito di un cucciolo di rinoceronte namibiano e di un dipinto di Pietro Longhi(2).. E adesso, qui, una nuova storia.
Fra le diapositive sciupate dal tempo, mi è molto cara quella un po’ sfocata di un’auto senza ruote, sollevata su pali di legno. Qualcuno ha dipinto lo sportello, e appoggiato bamboline di pezza degli herero, etnia fra le più numerose. Una sorta di Land Art, d’ingegnosa installazione. Non è esattamente quello che qui chiamano un “curio shop”, destinato al mercato. Più avanti, nel Damaraland, una bimba mi ha regalato la sua bambolina di straccetti di tulle, l’anima di ferro, e il sederino imbottito. In Italia ne ho fatto un’installazione, inserendola fra i libri di Walter Pater: Marius the Epicurean, ovvero il decadentismo tardo ottocentesco versus Africa postcoloniale. Un gap, molte riflessioni.



SCULTURE CHE SI ARRAMPICANO O SPENZOLANO DA UNA ROCCIA, O SIEDONO, SOLITARIE O IN COMPAGNIA, NEL “BUSH” OPPURE SOTTO A UN ESILE ALBERO


Hanging Man, Namibia 2020.


Green Drum, Namibia 2016.


Out of the Sand, Namibia 2015.