Selvaggio e coltissimo, romantico e antiromantico, superomistico e profondamente umanista, sostenitore di una recitazione inespressiva come di quella più espressionista, così radicato nella cultura tedesca eppure tale da risultare il più cosmopolita dei registi viventi (ha girato film in tutti e sei i continenti, compresi Oceania e Antartide), Werner Herzog (1942) è a suo agio nelle contraddizioni e ama definire se stesso un artigiano, non un artista, un soldato del cinema e non un regista.
Di certo è un militante del cinema, un esploratore dei suoi confini, di ogni reame intermedio fra fiction e documentario, tra cinema, tv e installazioni.
All’età di ottanta anni (a settembre) conta un’ottantina tra film e opere di vario tipo, una cifra record, una longevità artistica che ha pochi uguali, una filmografia imponente che è molto più che la somma delle sue parti. È la mappatura più estrema e meticolosa, l’enciclopedia audiovisiva più accurata e delirante dell’essere umano, e forse proprio perché vista attraverso i suoi punti limite.
Un’enciclopedia del diversamente umano. Ancora negli anni Settanta-Ottanta ciò veniva scambiato per superomismo (Fitzcarraldo, 1982 o Aguirre, furore di Dio, 1972), ma tutta la sua produzione successiva è piuttosto una perlustrazione di ogni condizione diversa dalla norma. Non ci sono infrauomini o superuomini. Che siano i protagonisti di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), i sordo-ciechi del Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), gli allergici all’elettromagnetismo di Lo and Behold - Internet: il futuro è oggi (2016), i misteriosi artisti preistorici delle caverne francesi o gli aborigeni australiani, c’è sempre l’uomo in condizioni limite. Come nella Soufrière (1977, sull’eruzione dell’omonimo vulcano), nell’Ignoto spazio profondo (2005, focalizzato in particolare sullo sbarco di una navetta terrestre in un lontanissimo pianeta a causa di una catastrofe che minaccia l’estinzione del genere umano), in Echi da un regno oscuro (1990, sulla figura di Jean-Bedel Bokassa, ex dittatore della Repubblica Centrafricana, artefice di crimini terribili e accusato di cannibalismo), in Fata Morgana (1971, ambientato in una sorta di spazio allucinatorio dei deserti africani). E ancora in Grido di pietra (1981) che tratta di una sfida tra alpinisti impegnati nella scalata del Centro Torre in Patagonia o in Cuore di vetro (1976) che ha come
tema l’esoterismo alchemico e l’uomo (e l’attore) in stato di trance da ipnosi. Una coerenza sotto questo aspetto che sarebbe inusuale perfino per uno scrittore, figuriamoci per un regista, che si specchia in alter ego altrettanto visionari: Chatwin (Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, 2019), Gorbaciov (Herzog incontra Gorbaciov, 2018, diretto con André Singer), Timothy Treadwell (Grizzly Man, 2005).
E in questo ultimo documentario - ispirato alla storia dell’esploratore ambientalista americano che per molti anni visse a stretto contatto con gli orsi grizzly nel Parco nazionale e riserva di Katmai (Alaska) dove rimase ucciso da uno di loro - nel protagonista che accarezza gli orsi, e che finisce dilaniato, si consuma il distacco totale da ogni idolatria della natura e del superomismo.
Herzog ha più volte dichiarato di ammirare il pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich: «Con lui ho una grande affinità. Nel Monaco sulla spiaggia e nel Viandante sul mare di nebbia un uomo sta solo in contemplazione del paesaggio. In confronto alla grandezza dell’ambiente, è minuscolo e insignificante. Ma Friedrich non dipingeva paesaggi fini a se stessi, ci rivelava invece paesaggi interiori, quelli che esistono solo nei sogni. Qualcosa che ho sempre provato a fare nei miei film».


