Francesco Somaini (1926- 2005) è stato uno degli scultori italiani di maggior successo all’estero, sin quasi dagli esordi di una lunga e fortunata carriera: nel 1956 aveva appena compiuto trent’anni, quando si impose all’attenzione della critica alla 28. Biennale di Venezia. Fu però il Brasile a costituire il vero trampolino di lancio nell’arena globale, con la sua nuova produzione che ne consolidava il passaggio dal concretismo all’Arte informale. Alla V Biennale di San Paolo, nel 1959, gli venne infatti attribuito il premio come migliore scultore straniero che gli aprì le porte del mercato statunitense, di grandi collezionisti (in primis i Rockefeller e l’architetto Philip Johnson),
dei musei (tra cui il MoMA) e di prestigiose istituzioni culturali, scientifiche e finanziarie che gli commissionarono opere di carattere urbano, come quelle installate ad Atlanta, a Baltimora, a New York e a Rochester, di fronte all’Osservatorio astronomico.
Da allora, la sua ascesa fu continua e inarrestabile, alimentata da una costante ansia sperimentale e da una altrettanto vorace attrazione per il tema della scultura negli spazi pubblici e del suo impatto con la città, che caratterizzeranno i decenni successivi con un’originalità che la mostra milanese - Somaini e Milano - documenta con puntualità e ricchezza di documenti.
A prima vista, può sembrare contraddittorio il titolo della rassegna rispetto alla riconosciuta dimensione internazionale dell’artista: ma, come avevano già avuto modo di sottolineare Enrico Crispolti (sodale e compagno di strada dello scultore per tutta la vita) e Vittorio Fagone, proprio il suo “furor costruttivo” poteva essere ricondotto alla vitalità dell’ambiente lombardo in cui Somaini si era formato, al suo pragmatismo e, soprattutto, alla sua fiducia in un’azione pronta a sconfinare nel parossismo.
Il Mac (Movimento d’arte concreta), cui Somaini aderì nel momento dell’alleanza con il Groupe Espace di André Bloc, il Manifesto dello spazialismo di Fontana, gli esponenti dell’Arte organica e dell’Arte totale - che si proponevano l’estensione dell’arte a sinestesia diffusa (implicante anche la sollecitazione dei corpi e dei sensi) in vista del raggiungimento della completa “realtà della vita” - stavano ridisegnando le coordinate dell’arte e dell’architettura, impregnandone le sperimentazioni con una sferzata di nuove energie. E Somaini se ne fa subito interprete e portavoce, grazie anche alla sua intima partecipazione ai processi dell’architettura.
Proprio al rapporto con l’architettura, la città e il territorio, la rassegna milanese dedica non a caso uno specifico capitolo nella sede della Fondazione Somaini (sempre nel capoluogo lombardo), che si aggiunge al capitolo presentato nella Sala delle cariatidi nel Palazzo reale (con settanta opere che documentano le varie fasi della ricerca dell’artista dal 1948 al 1992, improntata alla continua innovazione a livello teorico e formale) e a quello nelle sale superiori degli archivi del Museo del Novecento (rivolto agli “incontri” con Lucio Fontana, Ico Parisi, Giorgio Bassani e l’architetto Luigi Caccia Dominioni con cui avvia sin dai primi anni Cinquanta un collaudato sodalizio per circa un ventennio).
LA SUA SMANIA CREATIVA POTEVA ESSERE RICONDOTTA ALLA VITALITÀ DELL’AMBIENTE LOMBARDO IN CUI SOMAINI SI ERA FORMATO, AL SUO PRAGMATISMO E, SOPRATTUTTO, ALLA SUA FIDUCIA IN UN’AZIONE PRONTA A SCONFINARE NEL PAROSSISMO