Intorno al 1755 Giovan Battista Casanova, pittore e fratello del più famoso Giacomo, ordì una beffa ai danni di Johann Joachim Winckelmann. Aiutato da Raphael Mengs creò tre affreschi a soggetto mitologico e li inviò allo studioso tedesco, che si trovava a Roma. Nella lettera di accompagno raccontava che erano stati recuperati di nascosto a Pompei da un fantomatico cavalier de Marsilly, il quale li aveva tagliati a pezzi per trasportarli fuori dal regno di Napoli (diventa delle Due Sicilie nel 1816) e farli poi ricomporre. Winckelmann ne fu entusiasta, soprattutto per la scena che raffigurava Giove e Ganimede. Il 15 novembre 1760 scrisse a Giovanni Lodovico Bianconi, medico e antiquario alla corte di Dresda: «Ganimede sta in piedi ed è tutto ignudo, e voltato di fianco mostra la schiena. Non presumo di descrivere la bellezza di questo giovanetto di sedici anni, ma la sua testa mi resterà fissa nella mente. Le labbra sono tumidette e semiaperte per cogliere e rendere baci, le guance tinte di un vermiglio vergognoso, il quale con sfumatezza suave si stende in sul volto. Ma nell’occhio sta il colmo dell’arte e dell’artefice. Fisso sugli sguardi amorosi ed anelanti di Giove par che non respiri che voluttà, e che tutta la sua vita altro non fosse che un bacio».
L’episodio è riportato da Antonio Varone nel catalogo della mostra Arte e sensualità nelle case di Pompei, per dimostrare come talvolta fosse fuorviante il giudizio dei contemporanei sulle opere che cominciavano a riemergere dagli scavi, e come la sensibilità dell’epoca tendesse a sovrapporsi alla volontà artistica espressa tanti secoli prima da maestri ignoti e, nel caso della beffa a Winckelmann, addirittura inesistenti. L’idea della mostra nasce dal proposito di far chiarezza su questo equivoco, esponendo per la prima volta al pubblico le più recenti scoperte archeologiche a soggetto erotico, come l’affresco di Leda e il cigno, e il soffitto rinvenuto in crollo nella stessa casa, e i medaglioni in bronzo del carro cerimoniale di Civita Giuliana.
Da quando, nel 1748, un contadino recuperò tra le zolle arate un enorme fallo di marmo e Carlo di Borbone, incuriosito dal ritrovamento, dette avvio alla campagna di scavi nel sito dove sarebbe riemersa Pompei, l’antica città e gli altri siti vesuviani vennero associati a un mondo di sfrenate licenze sessuali. Nell’immaginario collettivo lo sono ancora oggi, a causa della quantità di falli, scolpiti o dipinti, riemersa nei secoli successivi nelle case private e nelle terme, nelle osterie e nei lupanari, nelle botteghe e nelle strade. E dei numerosi amplessi espliciti e variegati, di femmine con maschi, maschi con maschi, dèi travestiti da animali con ninfe o regine. O di semidei con animali, come nel celeberrimo gruppo scultoreo di Pan con la capra, ritrovato nel 1752 nella Villa dei papiri a Ercolano, e oggi visibile al Museo archeologico di Napoli. Talmente imbarazzante, con la posizione quasi umana della capra e la sua aria trasognata, da spingere l’allora duca di Calabria e futuro re Francesco I a istituire nel 1819 il “Gabinetto degli oggetti osceni”, per chiudervi a chiave tutte le opere ritenute indecenti. Le potevano vedere soltanto «persone di matura età e di conosciuta morale», e soltanto con un permesso speciale del re rilasciato tramite il Ministero degli interni.
Divenuto quasi un simbolo dell’arretratezza culturale borbonica, il Gabinetto fu riaperto dai rivoluzionari del 1848, e richiuso con la restaurazione del 1849: la porta fu sigillata e tre anni dopo addirittura murata. Con l’arrivo di Garibaldi, nel 1860, i duecentosei pezzi della “collezione pornografica” furono inventariati e ridistribuiti nelle sale. Di nuovo chiusi a chiave durante il fascismo, riesposti nel 1976, richiusi per il restauro delle sale del museo, esposti definitivamente nel 2000.
Provengono invece dai depositi del Parco archeologico di Pompei le settanta opere della mostra allestita nel portico ovest della Palestra grande della distruttua città vesuviana, dove si allenavano i rampolli dei ricchi pompeiani. I curatori Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni vi hanno ricreato una casa pompeiana ideale, scandita nei suoi vari ambienti, dove trovano spazio oggetti di uso quotidiano decorati con immagini che la sensibilità di oggi ci fa considerare erotiche, e che invece assumevano, nella visione antica, significati del tutto diversi.
L’ESIBIZIONE DEL FALLO, COME SI VEDE NELLA STATUA DI MARMO ESPOSTA NELL’“ATRIUM” E USATA UN TEMPO COME FONTANA, FACEVA RIDERE, E LA RISATA ALLONTANAVA IL MALOCCHIO