Raro che un film amato dagli appassionati di cinema giunga alla consacrazione dell’Oscar (come miglior film
internazionale): è accaduto a Drive my Car di Ryûsuke Hamaguchi, una pellicola dai molti livelli di lettura, capace di
mettere d’accordo palati fini e semplici amanti del cinema asiatico, che vi possono vedere anche solo una (o due) intriganti
storie d’amore. Ma naturalmente c’è molto di più nelle sue tre ore di durata. Tratto dall’omonimo racconto di Murakami Haruki,
intrecciato con Sheherazade (entrambi compresi in Uomini senza donne), il film espande tematiche e personaggi tipici
dello scrittore giapponese dilatandoli nell’invenzione, riuscita e funzionale, della cornice teatrale: Aspettando Godot di
Beckett prima, Zio Vanja di echov poi, che il protagonista Kafuku, regista e attore, mette in scena in modo assai particolare. A ciò fa da
contraltare una serie di meccanismi, porte scorrevoli del garage, registrazioni audio in auto, l’auto stessa, videochiamate, ascensori,
porte blindate, l’inceneritore del sottofinale. Dispositivi che richiamano la chiusura al contempo del testo da rappresentare e anche
degli esseri umani: l’intraducibilità profonda di ogni testo come di ogni persona. Il testo teatrale è infatti recitato in diverse
lingue: tedesco, inglese, giapponese, russo ma anche, e soprattutto, lingua coreana dei segni. Sono le lingue il dispositivo
centrale del film, il correlativo oggettivo di quanto accade a livelli più profondi, tra parole e gesti, tra corpo e anima.
Quegli stessi livelli in cui si svolge la storia misteriosa di un pesce di fiume raccontato dalla moglie di Kafuku nel prologo-apologo.
Un gioco di corrispondenze insomma. Forse non è privo di significato che buona parte del film si svolga a Hiroshima e la sequenza di avvicinamento tra Kafuku e la giovane autista Misaki, preludio al viaggio verso la “guarigione dell'anima”, si svolga in un luogo tanto connotato.
Le parole non sono tutto, dice l’attrice sordomuta nella lingua dei segni (la lingua perfetta a quattro dimensioni di cui parlava Oliver Sacks nel libro Vedere voci, 1989), coi suoi gesti esatti e insieme creativi. E «Se desideriamo capire qualcuno, l’unica cosa che possiamo fare è guardare dentro noi stessi», dice il giovane attore incaricato di impersonare zio Vanja. Da questo momento il rapporto tra Kafuku e Misaki passa da una sorta di cameratismo a qualcosa di più che sentimentale…
Hamaguchi ha delle marche autoriali indubbie: i titoli di testa che arrivano dopo mezz’ora, il testo teatrale che trapassa senza soluzione
di continuità in confessione e monologo interiore, la cancellazione totale del sonoro nel momento in cui Kafuku e Misaki arrivano nei
pressi del monte sacro Osorezan, dove ogni anno si svolge il festival dei defunti. Un film sull'elaborazione del lutto, e sul
ricominciare. Ancor più che Il gioco del destino e della fantasia (dello stesso regista), Drive my Car segnala la
nascita di un nuovo autore.