Nel 1897, vent’anni prima di varcare l’ultima soglia, Edgar Degas si considerava già un uomo morto. Era solo e accusava disturbi sempre più forti alla vista. Sapeva che lo stavano portando alla cecità, la più grave delle sciagure che possano capitare a un pittore. Inasprito dalla solitudine, travolto dagli sbalzi d’umore e ormai disilluso dalla vita, scorgeva decadenza ovunque si girasse. Tutto era perduto: la sua pittura, la sua fortuna, la sua vita. E dunque, per lui, anche la sua Francia.
Fu in quel periodo che su consiglio dei figli di Henri Rouart iniziò a prendere l’abitudine di farsi leggere dalla sua domestica, Zoé
Closier, gli articoli scandalistici tratti da “La Libre Parole”, il quotidiano antisemita che tre anni prima, scagliandosi contro un capitano ebreo
ingiustamente accusato di spionaggio, aveva di fatto creato l’“Affaire Dreyfus”. Suggestionato da tali congetture, il terribile Degas arrivò a
individuare la causa della rovina finanziaria della sua famiglia nei grandi banchieri ebrei. Nonostante il suo antisemitismo, però, fino a quel momento
era comunque riuscito a convivere, seppur in un regime di tacita sopportazione, con tutta una cerchia di figure di origine ebraica – a lui più o meno
care e da lui più o meno distanti – che ruotava attorno alla sua vita.