CORTOON

LE RADICI
DELL’ALBERO DEGLI ZOCCOLI

Luca Antoccia

A quasi cinque anni dalla morte e a oltre novanta dalla nascita, è tempo forse di rifare i conti con un irregolare del cinema italiano come Ermanno Olmi, vincitore con L’albero degli zoccoli (1978) della Palma d’oro alla XXXI edizione del Festival di Cannes. E per rifare i conti, aiutano i suoi primi corti.
Se è vero che i corti sono il luogo in cui una poetica d’autore prende forma o si precisa, in Olmi ciò è un modo di riprendere volti e paesaggi, di interconnettere uomo e natura: Natura e chimica (1959), come recita uno di essi, Fertilizzanti complessi (1961, un altro titolo) e complessità fertilissime. Molti di essi li realizzò per la Edison: da semplice fattorino arrivò a occuparsi delle attività ricreative dei dipendenti e a dirigere la sezione cinema, una storia non molto nota, divulgata diversi anni fa da Gli anni Edison (2008), libro e dvd racchiusi in un cofanetto realizzato da Feltrinelli, che è da riscoprire. Il cinema industriale negli anni Cinquanta aveva un glorioso passato (Flaherty e Ivens su tutti), e un presente assai vivo, tra Antonioni e Kubrick.
E tuttavia Olmi, al contrario degli altri, è un dipendente dell’azienda per cui fa film. Nella Diga del ghiacciaio (1954) si trova quell’ingenuo entusiasmo che porta negli stessi anni la coppia Raymond Queneau e Alain Resnais a scrivere e filmare Le chant du Styrène (1958), un’elegia della plastica. Un cinema civile e “impegnato” è anche Pattuglia di passo San Giacomo dove una folla brulicante di piccoli personaggi richiamano le sagome nere sulle neve di Bruegel.
Le baracche, i volti, le attese di Manon, finestra 2 (1956), scritto con un giovanissimo Pasolini e notato da Rossellini, descrivono uno stare al fronte (in tempo di pace) che prefigura le atmosfere di Torneranno i prati (2014). Di tutt’altro genere Michelino 1°B (1957), avventura di un piccolo studente che dopo la quinta elementare frequenta una scuola di avviamento professionale per entrare poi nel mondo del lavoro e da un piccolo borgo sul mare va a Milano: pur impregnato di paternalismo e sentimentalismo, in un’atmosfera da libro Cuore, vi si insinua un’ombra di malinconia e di malessere che riconnette inaspettatamente questo corto a quello d’esordio, Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggiere (contenuto nel cofanetto sopra menzionato), straniante divertissement leopardiano ambientato nella stazione di Milano.
Ma presto il racconto di formazione edificante reimpone le sue leggi: è un mondo del lavoro sentito ancora come redenzione possibile e auspicata. L’apologia quasi favolistica dell’industria moderna è la stessa che in quegli anni canta Bruno Lauzi: «Vedrai com’è bello lavorare con piacere in una fabbrica di sogno tutta luce e libertà» (sigla di una trasmissione televisiva tratta dal testo Vedrai com’è bello di Gualtiero Bertelli, 1966). Un’illusione però incrinatasi già nel secondo lungometraggio Il posto del 1961, e che sfocerà alla fine degli anni Settanta nella grande elegia contadina.


Un frame da La diga del ghiacciaio (1954), di Ermanno Olmi.