In questo periodo la Cappella palatina del Maschio angioino a Napoli offre ai visitatori la possibilità di godersi sia una mostra sui songye sia il dialogo eccezionale tra le opere di questa popolazione africana e i resti degli affreschi di Giotto, che si conservano sulle pareti del “contenitore” espositivo. Contemporaneamente il MANN - Museo archeologico nazionale di Napoli, affiancando quattro sculture songye a quelle greche e romane, arricchisce il percorso espositivo proponendo anche un altro tipo di dialogo.
Tali sinergie sono rese possibili dall’esposizione: Sacri spiriti. I songye nella Cappella palatina, in corso fino al 15 gennaio 2023 e che, complessivamente, presenta centotrentatre figure magico-religiose di questa popolazione della Repubblica democratica del Congo. Ma, oltre al dialogo tra l’arte “altra” e la nostra, è importante sottolineare che l’esposizione di Napoli è la più importante mai realizzata sulla scultura tradizionale dei songye, la quale è stata al centro di ben poche mostre, anche se interpreta efficacemente l’immaginario della creatività africana.
L’esposizione e il dialogo sono dovuti al lavoro dei due curatori, Bernard de Grunne e Gigi Pezzoli, che oltre al MANN sono riusciti a coinvolgere in modo molto efficace il Comune di Napoli, che non solo ha messo a disposizione la Cappella palatina, ma proprio per la mostra ha anche posticipato l’avvio di importanti lavori di restauro curati dalla Soprintendenza ai monumenti.
In questo contesto, inoltre, è doveroso segnalare il ruolo di Andrea Aragosa, che con la sua società, Black Tarantella, sta facendo di Napoli un punto di riferimento per una serie di iniziative sulle culture dell’Africa, dato che quella sui songye è la terza grande mostra fatta nella città partenopea negli ultimi due anni. È anche importante sottolineare che in tempi di polemiche sulla “repatriation” e sulla “decolonizzazione” dei musei, De Grunne e Pezzoli sono riusciti ad avere il patrocinio dell’ambasciata della Repubblica democratica del Congo, ben contenta, evidentemente, che parecchie opere, caratterizzate fino a pochi anni fa da un valore puramente etnografico, siano ora accostate ai capolavori dell’arte del Mediterraneo e dell’Europa.
Nella mostra sono esposte figure antropomorfe dai tratti subnaturalistici molto stilizzati e accentuati, anche se in alcuni casi i corpi possono essere rappresentati o da forti geometrizzazioni o da elementi vagamente cilindrici.
In genere si tratta di “figure di potere” o “effigi cultuali”, che erano realizzate da scultori e da fabbri, i quali, finito il lavoro, passavano le sculture agli specialisti del sacro, che le “consacravano” con canti, preghiere e con l’inserimento di elementi animali e naturali.
In ogni caso, appare chiaro che se da un lato gli scultori dovevano rispettare modelli e tradizioni, dall’altro avevano una certa autonomia nella scelta delle soluzioni formali, perché i tratti distintivi delle loro opere, pur ripetendosi, riescono comunque a caratterizzare molto bene i personaggi, che raggiungono un’ottima espressività e, in molti casi, sembrano raffigurare soggetti ben precisi.
Alcune sculture sono rifinite e lisciate con maestria, mentre altre sono più grezze e più segnate dal tempo, tutte comunque non perdono il loro pathos.
Grazie al lavoro fatto dagli specialisti, nel caso di questa etnia è stato possibile coniugare le ricerche etnografiche con quelle propriamente artistiche, che hanno consentito di fare le opportune attribuzioni, utilizzando la metodologia che gli storici dell’arte usano da sempre e che, purtroppo, è ignorata dalla maggior parte degli antropologi.
In questo modo sono stati individuati cinque maestri della scultura songye, che i curatori hanno messo al centro della mostra. Per quanto non ci sia lo spazio per riprendere le loro analisi approfondite, sembra, tuttavia, opportuno citare questi artisti e segnalare gli elementi che li caratterizzano.
Il Maestro di Muyemba si distingue per aver realizzato una scultura con testa molto espressiva e un corpo ben proporzionato con grandi piedi.

