Giorgio Bassani era convinto che i film di Pier Paolo Pasolini andassero letti a partire dalle sue opere letterarie.
Questo è vero ma è vero anche il contrario, in particolare per i corti, che siano episodi di film collettivi, o che siano corti dissimulati da lungometraggi come quelli della Trilogia della vita.
Nel 1963 La ricotta (episodio di Ro.Go.Pa.G.), uno dei vertici del cinema pasoliniano, anticipa nella prassi le idee sviluppate due anni dopo nel saggio Il cinema di poesia. La storia del figurante Stracci, che muore “davvero” in un “tableau vivant” ispirato alla Deposizione di Pontormo, fa collidere lirismo e prosaicità come due anni prima, in Accattone, la musica di Bach aveva fatto con la periferia romana. La terra vista dalla luna (1967, episodio di Le streghe) e soprattutto il visionario Cosa sono le nuvole (1968, episodio di Capriccio all’italiana) - nel discorso sul riso, l’innocenza e il primitivismo in funzione antiborghese - prefigurano gli approdi dell’ultimo Pasolini, cinematografico e romanzesco: Petrolio in particolare, testo la cui gestazione avviene peraltro quasi in contemporanea con Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974), concomitanza spesso trascurata dalla critica con conseguente sottovalutazione del loro ruolo nella parabola pasoliniana.
Un’ispirazione rapsodica per un’epoca idealizzata che non può essere rappresentata che in modo destrutturato.
Il primitivismo cinematografico che nelle opere di Pasolini più volte si affaccia (la corsa accelerata di Stracci verso la ricotta, Charlot sul muro della catapecchia di Totò in La terra vista dalla luna, e reinterpretato con tanto di bastone e bombetta da Ninetto Davoli in un episodio del Fiore della mille e una notte) ci dice che la Trilogia della vita, pur con tutto lo sfarzo delle scenografie di Dante Ferretti e dei costumi di Danilo Donati, e anzi proprio nonostante questo, insegue l’innocenza di un mondo irriducibile a quello borghese, mondo mortifero, che ha «disimparato a ridere perché il riso ha perso ogni sacralità rivitalizzante», leggiamo in Petrolio. In questa opera, centrale e programmatico è il ricorso al comico (Sterne e Gogol’ sono i modelli) e all’iperbole. Infine, andrebbe riconsiderato nello stesso libro l’uso di inserti “cinematografici”, soprattutto le sessanta pagine della cosiddetta “visione” dove tecniche e luci cinematografico-pittoriche aiutano non poco a inquadrare la disperata omologata umanità borghese in una serie di bolge dantesche. Una specie di corto nel fluviale romanzo. «La verità non è in un solo sogno ma in molti sogni». Anche corti. Questo il lascito dell’ultimo destrutturato Pasolini cineasta e romanziere.
