PREMESSA

Sfortuna e fortune dell'Ottocento italiano

La letteratura, e soprattutto la musica italiana dell’Ottocento, hanno sempre ricevuto riconoscimenti internazionali. La pittura invece, soprattutto quella del secondo Ottocento, nonostante il florido mercato legato a un accanito collezionismo locale, ha patito riserve critiche fin oltre la metà del XX secolo. A lungo ha aleggiato l’insinuazione, quando non l’accusa manifesta, di un linguaggio provinciale, venato di indugi sentimentali, che neppure i pittori di maggior talento avrebbero saputo evitare. Il dibattito verteva anche sull’esistenza o meno di un’identità nazionale, che già in epoca risorgimentale aveva conosciuto ferventi sostenitori: primo fra tutti Giuseppe Mazzini, che nel 1841, in esilio a Londra, aveva lanciato il profetico appello affinché la pittura italiana moderna assumesse il valore di una dichiarazione di libertà politica e fosse un valido, anzi il più esplicito mezzo di riscatto nazionale(1). Perlomeno gli artisti del Risorgimento, come si vedrà, non avevano disatteso simili aspettative.


La questione di una pittura italiana, sovraregionale, sarebbe riaffiorata con enfasi polemica in epoca postunitaria. A Firenze, nel 1861, la prima Esposizione nazionale italiana avrebbe dovuto convalidare il progetto politico-culturale dell’Italia unificata, ma fu un insuccesso per quanto riguarda la pittura, dato che una mancata sinergia fra gli organizzatori aveva privilegiato, a seconda delle regioni, «ora il formalismo di matrice accademica, ora le novità della corrente realista, ora i generi apprezzati dalla borghesia, prevedendo inoltre la partecipazione di artisti dilettanti con risultati quasi sempre modesti»(2).


Nel 1867 lo storico Pasquale Villari, in visita all’Esposizione universale di Parigi, notava invece che la pittura francese, nonostante fosse ancora quella accademica e convenzionale dei Salon, manifestava«una gran varietà, conservando sempre un suo proprio carattere nazionale». Se era ormai della Francia quel «primato nelle arti che così a lungo appartenne all’Italia», i nostri artisti non sapevano più «essere moderni senza essere stranieri» né «essere italiani senza essere d’un altro secolo»(3). Altri rimarcarono allora che forse solo la scultura, fra le varie discipline, aveva ancora qualcosa di originale da dire in Italia. Intanto un pittore come Telemaco Signorini, vedendo perfino l’arte francese scaduta a melense convenzioni, «cortigiana delle cortigiane», concludeva mestamente: «Noi che siamo un pallido riflesso della civiltà francese, lo siamo oggi della sua decadenza»(4). Ma era giunta l’aria nuova degli impressionisti e oltralpe, nonostante gli scandali e le incomprensioni, le cose mutarono in modo eclatante. Tuttavia, per la critica modernista del primo Novecento i nostri non erano riusciti a cogliere l’occasione di allinearsi alle innovazioni francesi.