Tra i paesaggi più peculiari dell’Italia preindustriale vi è sicuramente quello della campagna romana. Attorno alla
capitale si estende una pianura ondulata e mossa, armonica ma un po’ brulla, solcata dal Tevere e delimitata dai colli Albani, dai monti della Tolfa,
dai Sabatini, dai Prenestini, dagli Ausoni; fatta oggetto, nel volgere delle epoche e degli stili, di innumerevoli rappresentazioni pittoriche, che
vanno dal Seicento (con Poussin e Lorrain) agli anni Venti- Trenta del secolo scorso. Un fenomeno documentato da libri, mostre, cataloghi, curati da
studiosi come Renato Mammucari, Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, Clemente Marigliani, Anna Maria Damigella, Nicoletta Cardano.
Quella della campagna romana – definita anche “agro latino” – è una terra di declivi e colline basse e lunghe, frammentate da insenature; prima delle bonifiche e dell’urbanizzazione del dopoguerra, era caratterizzata da ampie distese silenti (non di rado malariche nei mesi caldi), da un’atmosfera sospesa, da una luce dorata e un po’ misteriosa. Lo scrittore e critico Ugo Fleres, acutamente, definì questo scenario paesaggistico «melanconico di fronte alla giocondità napolitana, austero di fronte alla gentilezza toscana, selvaggio di fronte alla cultura lombarda»; mentre il Belli, sommo poeta romanesco dell’Ottocento, nel sonetto Er deserto aveva tratteggiato la campagna latina evocando «dapertutto un zilenzio com’un ojo / che si strilli nun c’è chi t’arisponna».