La Deposizione Di VoLterra,
nuoVe opere fiorentine‌

L’ostilità, che Vasari tramanda narrando della pala degli Uffizi, non fu unicamente del Buonafede, s’è vero che anche l’Assunzione dell’Annunziata qualche difficoltà l’incontrò.

Siamo  solo all’inizio di un’insofferenza, se non proprio di un’avversione, in patria nei confronti della maniera del Rosso. Il quale, dopo la ripulsa dello spedalingo, lascia Firenze e va scrive Vasari alla corte degli Appiani: «Poi lavorò al signor di Piombino una tavola con un Cristo morto bellissimo, e gli fece ancora una cappelluccia; e similmente a Volterra dipinse un bellissimo Deposto di croce» (Vasari, IV, p. 476). Ecco che torna il tema del Cristo morto; che il Rosso, tra la fine del secondo decennio e l’inizio degli anni Venti, svolge per Jacopo V Appiani e per la compagnia della Croce di Volterra.


Se dei lavori a Piombino non conosciamo gli esiti (si rammenti, però, che Vasari definisce «bellissimo» il «Cristo morto» lì dipinto), dell’impegno volterrano si può, grazie a Dio, ancora sbalordire al cospetto della celebre Deposizione (una delle opere più liriche di tutto il Cinquecento), di cui subito si dovrà però dire ch’è stilisticamente quasi incomparabile con la Pala dello spedalingo. Ed è giudizio, questo, che impone una riflessione. Cos’è successo in quei due tre anni per determinare uno scatto linguistico così brusco? Specie nella cromia (diventata vivida e addirittura fiammante) e nell’astrazione (sperticata fino al virtuosismo). Davvero non par credibile che alla piccola corte piombinese degli Appiani, quantunque verisimilmente frequentata da umanisti consentanei del Rosso (quale dovette essere Pietro Calafati), gli sia occorso d’aver pratica con intellettuali e artefici d’un rango tale da provocare quella virata. Da qui prende corpo e s’avvalora la congettura che Pietro Summonte alluda al Rosso quando, nella lettera scritta nel 1524 al veneziano Marcantonio Michiel (ragguaglio veridico sull’arte a Napoli nel Rinascimento), parla d’un giovane fiorentino di nome Giovan Battista che aveva lasciato nel suo soggiorno napoletano (in un tempo non precisato, ma da collocare sul 1520) alcuni quadri, fra cui diversi ritratti di ragguardevoli personaggi partenopei, da Jacopo Sannazaro a Giovanna d’Aragona.