GLI SCARSI DATI DOCUMENTARI E LA DIFFICILE
RICOSTRUZIONE DEL CORPUS DELLE OPERE

Guardando la questione storicamente, Cecco del Caravaggio è stato strappato all’oblio soprattutto per due brevi citazioni.

La prima è un fondamentale passo nelle Considerazioni sulla pittura di Giulio Mancini3 in cui Cecco («Francesco detto Cecco del Caravaggio») viene inserito nella «schola del Caravaggio» insieme a Bartolomeo Manfredi, Jusepe de Ribera e Giovanni Antonio Galli detto Spadarino.

La seconda è un sonetto di Silos, nella sua raccolta dedicata alle opere più famose che si potevano vedere nelle collezioni romane, pubblicata nel 16734. Su quelle scarse basi nel 1943 Roberto Longhi compirà una prima ricostruzione della fisionomia del pittore5.

Per molto tempo ci si è occupati dell’affascinante personaggio, soprattutto dibattendo sulla sua provenienza straniera (data da sempre come probabile) e ipotizzando – spesso con esiti fantasiosi – la ragione del soprannome, senza conoscerne i dati anagrafici (riemersi, come vedremo, nel 1991). Per stabilirne i contatti culturali ci si deve dunque affidare, per forza, agli aspetti stilistici delle sue opere; così come è obbligatorio, al momento, operare solo interpretando il linguaggio delle opere, per ipotizzare soggiorni e spostamenti al di fuori di Roma, la città nella quale possiamo ambientare la carriera di Cecco nel secondo decennio del Seicento.

Prima della fortunata comparsa del nome di Cecco fra i documenti Guicciardini (di cui parlerò fra poco), la memoria biografica del pittore era affidata a quattro citazioni: la prima, a cui ho accennato, è la fondamentale menzione di Giulio Mancini6.

Successivamente è Agostino Tassi a parlare del pittore, quando nel 1619 in una deposizione processuale ricorda il tempo in cui lavorava alla decorazione del casino Montalto nella villa Lante a Bagnaia (Viterbo) 7. I fatti ricordati risalgono al 1613 o più probabilmente ai primi mesi del 1614 e Tassi, con parole che hanno dato alimento all’attribuzione di una nazionalità francese a Cecco, così li racconta: «Et io alloggiava accompagnato con quelli francesi che tutti stavano nel medesimo casino. Ci erano tre stanze, in una delle quali ce dormiva io e meco ci stava Ceccho del Caravaggio e nella sala ce dormiva l’altro francese». Ma rileggendo senza pregiudizi il brano, non vi si poteva ricavare nessun indizio che provasse la provenienza transalpina del pittore.

Del 1635 è poi il riferimento al «Checco, allevo di Caravaggio» di un dipinto con «Un giovane a sedere con un fogliazzo in mano» nell’Inventario della collezione del duca di Savoia a Torino8. Nel 1673 viene infine pubblicato il citato sonetto dedicato da Silos alla Cacciata dei mercanti dal tempio del principe Giustiniani, dipinta da «Checchi à Caravagio»9. Quest’ultima menzione è stata quanto mai preziosa, perché ha permesso a Roberto Longhi10 di individuare il quadro nella omonima tela della Gemäldegalerie di Berlino, proveniente dalla collezione Giustiniani, venduta nel 1812 a Parigi (col riferimento a Jean Ducamps) e successivamente acquistata dal re di Prussia, e di collegare le citazioni di Mancini e di Tassi al medesimo personaggio.

E quindi di collegare il dipinto al «Francesco detto Cecco del Caravaggio» citato da Mancini nella «schola» di Merisi. Per via stilistica inoltre lo studioso affiancava al quadro base un gruppo di dipinti che fino ad allora avevano avuto attribuzioni a Louis Finson: l’Amore al fonte (battezzato da Longhi Narciso) di collezione privata; il Flautista dell’Ashmolean Museum di Oxford; la Resurrezione dell’Art Institute di Chicago. Un nucleo che già attestava la notevole statura del personaggio, l’esattezza delle parole di Mancini nel collocarlo fra coloro che soli potevano fregiarsi della qualifica di seguaci di Merisi, nonché, secondo Longhi, «una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico della prima generazione».


San Lorenzo (1615 circa); Roma, Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova), Stanze di san Filippo Neri.