La pagina nera
QUELLA NOBILE CENTRALE
È CONCIATA PROPRIO MALE
di Fabio Isman
Ci sono ex centrali elettriche, anche assai vetuste, che risorgono a nuova vita; e magari, diventano straordinari musei archeologici, come la Montemartini, la prima pubblica a Roma, inaugurata nel 1912; oppure, sempre per citarne alcune, la Camerini di Porto Tolle (Rovigo), spenta nel 2015, che nel delta del Po promette un futuro di parco turistico, sportivo e agroalimentare, integrato con le strutture che già vi esistono. Altre, invece, continuano a produrre anche dopo oltre un secolo di attività, e, ovviamente, con i necessari aggiornamenti tecnologici: come, per esempio, le due volute sull’Adda dalla famiglia Crespi; a Trezzo, che fa parte della città metropolitana di Milano, la splendida Taccani del 1906; e a Crespi d’Adda (Bergamo), quella aperta in funzione della famosa e omonima città operaia tre anni più tardi. O, sul medesimo fiume, la bellissima Esterle di Cornate (provincia di Monza e Brianza), anche lei del 1906. Ma sono soltanto pochi esempi tra i tanti possibili.
Si calcola che, in Italia, le centrali idroelettriche funzionanti siano quasi quattromiletrecento: oltre un quinto in Piemonte, e di solito, logicamente, sulle Alpi, o gli Appennini. L’acqua, grande risorsa per produrre energia. Ma negli ultimi cinque anni una sessantina di impianti si sono fermati, e si dirigono verso destini diversi. Tra i tanti, almeno un caso, però, grida vendetta: una centrale nel centro dell’Italia, in provincia di Terni tra i fiumi Velino e Nera, all’inizio della Valnerina e a un solo chilometro dalla celebre cascata delle Marmore, la più alta artificiale d’Europa e tra le più elevate al mondo. Questo impianto, che si chiama Papigno, è stato in funzione dal 1901; nella seconda guerra mondiale i tedeschi in ritirata l’hanno pressoché distrutto; poi è stato ricostruito, e ha lavorato fino all’inizio degli anni Settanta, finché, lì vicino, è sorta una seconda centrale, tuttora in azione. E così la prima – che in origine produceva carburo di calcio per una società romana, poi anche un derivato (un fertilizzante utilizzato in agricoltura, la calciocianamide) e dal 1911 forniva pure l’energia elettrica, agli stabilimenti della Terni, divenuti proprietari dal 1922 – non serviva più.
Da allora, per mezzo secolo, la centrale del Papigno, dotata di innumerevoli pertinenze, è stata soltanto una larva: preda dell’incuria, dei vandali e dei ladri di rame, senza che nessuno riesca a capire che cosa possa diventare. I sei gruppi di turbine dell’officina ricavata nella roccia sono fatti a pezzi giorno per giorno. Un degrado assoluto; non c’è più, da tempo, nessuna sorveglianza di quello che era un vero e complesso stabilimento elettrochimico, in principio fornito di una capacità produttiva di diecimila kilowatt, poi arrivata fino a sessantunomila, con una condotta forzata di duecentocinquanta metri per alimentare le turbine.
Tra il 1973 e il 2003, il Comune di Terni l’ha acquistato, con le installazioni rimaste nei vari reparti; nel 2005, aveva anche deliberato un intervento di recupero, che, però, non è neppure iniziato. Per carità: non è certamente un’operazione semplice.
Stiamo parlando di un insieme di oltre centomila metri quadrati; quasi una piccola città, di cui circa trentacinquemila metri sono coperti. Negli ultimi anni, Roberto Benigni ci ha girato delle scene del suo Pinocchio e della Vita è bella, e se ne vedono ancora le tracce; ma unicamente per ripulire il sito, e così permettere nuove produzioni, servirebbe quasi un milione e mezzo di euro, almeno stando a un recente progetto comunale. Poco ormai resta degli impianti originari: la ciminiera, la sala macchine, dei capannoni, qualche cartello di «Divieto d’accesso» sui muri scrostati. Vetri e buona parte delle coperture, facile da intuire, non esistono più: sostituiti magari con alcuni murales di chi è riuscito a introdursi in questo clamoroso esempio di archeologia industriale. Le infiltrazioni d’acqua si sprecano, e i tunnel degli alimentatori, abbandonati a loro stessi e logorati dal tempo, rischiano addirittura di diventare una sorta di “bomba ecologica”; le turbine sono inutili fantasmi abbandonati.
Nel tempo, la centrale Papigno, dopo essere appartenuta alla Terni, è stata del Gruppo Finsider e infine dell’Eni; ha dovuto misurarsi con la crisi di utilizzazione del suo prodotto originario; durante la sua vita è stata salvata almeno un paio di volte dall’inattività. L’ultima, però, negli anni Settanta, quando è sorta la seconda e più moderna centrale, non è bastato. Se un brano della storia produttiva della provincia di Terni è ormai andato irrimediabilmente perduto, forse da questa struttura emblematica si può ancora trarre qualcosa. Soprattutto, non lasciarla andare definitivamente alla malora.



