A quattordici anni acquista la sua prima opera d’arte da un rigattiere: una statuetta medievale, che paga con i suoi risparmi. Una Madonna col Bambino intagliata nel legno e mangiata dal tempo, con uno sguardo fisso e ieratico. Michelangelo è figlio d’arte, suo padre è un restauratore importante, ma fin da giovane si rende conto che la sua strada sarà diversa. Inizia a dipingere figure umane in piedi, che si stagliano su fondi monocromi, simili a quelli che ha visto alla fine degli anni Cinquanta nella galleria del Naviglio a Milano, immergendosi nel blu profondo e misterioso delle opere di Yves Klein. Chiama quei dipinti Quadri specchianti e li fa vedere al gallerista Mario Tazzoli, titolare della galleria Galatea a Torino, che fa subito un contratto al giovane artista. Così, comincia la brillante carriera di Michelangelo Pistoletto, classe 1933, che viene fin dall’inizio conteso tra le gallerie italiane e quelle americane. Nel 1962 lo notano due mercanti dal palato fine come Leo Castelli e Ileana Sonnabend, che lo invitano a esporre a New York vicino a Roy Lichtenstein e Andy Warhol, leader della corrente della Pop Art, destinata a conquistare il mondo. Ma Pistoletto non è convinto, e qualche anno dopo lascia la galleria americana ed entra nel gruppo dell’Arte povera, lanciato dal critico Germano Celant nel 1967. «Chiamandola Arte povera, Celant ha tolto tutta l’enfasi del superfluo, l’ha eliminato, lasciando l’essenziale. Povero non vuol dire privo di danari, non è una mancanza, non è un’assenza, è un’essenza», dichiarò l’artista. Oggi Pistoletto, alla soglia dei suoi novant’anni, è protagonista della mostra antologica Michelangelo Pistoletto. Infinity. L’arte contemporanea senza limiti, aperta fino al 15 ottobre al chiostro del Bramante a Roma: cinquanta opere selezionate da Danilo Eccher e quattro grandi installazioni site specific, realizzate per l’occasione, presentano al grande pubblico un’avventura artistica lunga sessant’anni e costellata di successi internazionali, dal 1962 al 2023. Una panoramica che prende avvio da quei Quadri specchianti che incantarono Leo Castelli, il quale ne aveva capito subito il potenziale innovativo. «Il mio quadro specchiante nero non è un “object trouvé”, è un dipinto che si apre spontaneamente a rappresentare tutto ciò che può esistere, solamente perché il significato di immagine del reale è immesso nella realtà insignificante», spiega l’artista. Il passaggio successivo è rappresentato dagli Oggetti in meno, eseguiti intorno alla metà degli anni Sessanta, dove Pistoletto elimina ogni riferimento autoriale alla natura dell’opera, che assomiglia a un oggetto quotidiano. Presentati per la prima volta nella mostra Arte abitabile, tenutasi nel giugno del 1966 presso la galleria Sperone di Torino, costituiscono un passaggio fondamentale verso l’Arte povera. L’anno successivo realizza la Venere degli stracci (1967), quasi un’icona della nuova corrente, esposta al Bramante: si tratta di una copia in cemento della Venere con pomo dello scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen appoggiata a un mucchio di stracci vecchi, che l’artista utilizzava per pulire i Quadri specchianti. «La Venere è la memoria in potenza che abbraccia fisicamente e rigenera ogni elemento che nel presente giunge a consunzione», racconta l’artista.


