XXI Secolo
JUDITH JOY ROSS

trasparenza
di sguardo

Francesca Orsi

CON IL SUO OCCHIO PROFONDO E LA SUA INNATA EMPATIA FA EMERGERE DAI SOGGETTI FOTOGRAFATI I LORO SENTIMENTI E LE LORO FRAGILITÀ. RISULTATO CHE L’AMERICANA JUDITH JOY ROSS OTTIENE ANCHE GRAZIE ALLE SUE ABILITÀ TECNICHE E A PARTICOLARI MODALITÀ DI STAMPA: ELEMENTI CHE CONCORRONO A RENDERE UNICHE LE PERSONE RITRATTE.

Quando nella prima metà degli anni Ottanta Judith Joy Ross si presenta al MoMA dall’allora direttore del dipartimento di fotografia, John Szarkowski, con il proprio portfolio sottobraccio, per una lettura delle immagini del suo recente Eurana Park (1982), l’attento curatore le chiede immediatamente dell’influenza di August Sander sul suo lavoro. La fotografa svia la domanda, negando l’evidenza. «Ero come Giuda che rinnega Cristo», ha raccontato in un’intervista commentando quel momento. Ma colui che aveva lanciato fotografi del calibro di William Eggleston, Diane Arbus, Lee Friedlander e molti altri ha l’occhio lungo e consiglia a Ross di non aver paura di manifestare la tradizione che si cela nelle sue immagini. Quel loro primo incontro avrebbe portato, poi, alla partecipazione di Judith Joy Ross alla mostra New Photography del MoMA, curata per l’appunto da John Szarkowski nel 1985. Rivelare la tradizione dei fotografi prima di lei non sarebbe stato più un ostacolo, ma un modo, forse, per valicarla. È indubbio, nei suoi ritratti frontali, in cui il soggetto guarda l’obiettivo, il richiamo all’autore di People of the Twentieth Century, ma il modus operandi di Judith Joy Ross non è volto alla classificazione sociale, come fu per Sander, ma, al contrario, alla manifestazione delle vulnerabilità umane. Con la precisione di uno scanner, infatti, i suoi ritratti rivelano la dimensione interiore dei soggetti, la loro psiche, la loro unicità. Anche in progetti come Portraits of the United States Congress (1986-1987), in cui il rigore del ruolo e dell’apparenza poteva imporsi sull’umanità del soggetto, la fotografa di Hazleton in Pennsylvania inserisce costantemente un dettaglio che fa da ponte con l’inespresso visivo. Una cravatta allentata, una spilla storta, uno sguardo schivo, un sopracciglio inarcato, un sorriso a mezza bocca, un braccio esitante, tutti minuscoli richiami a quella sensibilità umana tanto amata e cercata da Ross. L'occasione per ammirare questa incommensurabile ritrattista e tutta, o comunque gran parte, della sua produzione è la mostra, a cura di Joshua Chuang, Judith Joy Ross: Photographs 1978-2015, che da poco ha concluso il suo tour europeo tra Madrid, Parigi e L’Aja, per ritornare negli Stati Uniti al Philadelphia Museum of Art fino al 6 agosto. Una carrellata cronologica di circa duecento fotografie racchiuse tra i suoi lavori più famosi come Eurana Park, Portraits at the Vietnam Veterans Memorial, Portraits of the Hazleton Public School, Eagle Rock Reservation, gli esordi con una fotografia maggiormente “on the street”, e i suoi lavori più recenti come Eyes Wide Open o Elections sulla macchina elettorale americana che ha visto diventare Barack Obama presidente nel 2008. Nei ritratti di Judith Joy Ross si intravede il movimento interiore del soggetto che, con le sue paure, la sua storia, il suo sentimento, si trova di fronte a un occhio di vetro che lo osserva e che cerca di andare oltre l’apparenza figurale e scava.


Untitled, Vietnam Veterans Memorial, Washington (1984).


Celia (1980).


Untitled, Easton, Pennsylvania (1988).