Grandi mostre. 3
MANZÙ A VERCELLI

embrioni
della materia

AUTODIDATTA E FORSE, PER QUESTO, LIBERO DI SCEGLIERE COME E COSA CREARE, GIACOMO MANZÙ HA POSTO PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA MATERIA, CHE CONOSCEVA E SAPEVA TRATTARE ALLA PERFEZIONE E DALLA QUALE HANNO PRESO FORMA LE SUE SCULTURE IN LEGNO, MARMO E BRONZO.

Marta Santacatterina

A Vercelli un’“Arca” accoglie le opere di Giacomo Manzù. Non si tratta, ovviamente, dell’arca biblica, bensì del polo espositivo ricavato nell’ex chiesa di San Marco, al cui interno è oggi inclusa una struttura modernissima con soffitti in cristallo che lasciano intravedere le volte dell’edificio religioso sconsacrato, risalenti al XIII secolo. La scelta per la nuova mostra, che segue quella dedicata a Francesco Messina, è ricaduta sull’artista nato a Bergamo nel 1908 e risponde all’intento di “riscoprire” i grandi maestri della scultura del Novecento italiano. Gli spazi sono tra l’altro assai adatti a valorizzare le oltre trenta sculture, alcune monumentali, messe a disposizione dalla Fondazione Manzù, dallo Studio Copernico e dai collezionisti privati. Lo scopo del progetto ce lo racconta Alberto Fiz che è uno dei curatori: «Dare una visione la più variegata possibile di quello che è l’apporto di Manzù allo scenario della scultura del secolo scorso. Il suo è un approccio estremamente individuale e mai formale, come ha sottolineato anche Cesare Brandi, critico d’arte nonché amico del protagonista. E proprio da un testo di Brandi deriva il titolo dell’iniziativa, La scultura è un raggio di luna, che vuole mettere l’accento sull’elemento quasi germinale che traspare dalle figure. È come se lo scultore le facesse uscire dalla materia, con una concezione assai lontana dai criteri di realismo e neorealismo tradizionali». A voler rintracciare le radici su cui si fonda l’opera di Manzù, bisogna considerare che egli proveniva da una situazione di grande povertà, la stessa in cui versavano Francesco Messina e Arturo Martini e, alla pari di questi, fu autodidatta. Ad accomunarlo a Messina vi è inoltre uno stretto rapporto con la scultura funeraria, e dunque con una serie di maestri non “consacrati”, ma che concretamente e quotidianamente producevano gli apparati plastici destinati ai cimiteri. E se si aggiunge lo studio su Medardo Rosso, ecco che si spiega il rapporto privilegiato di Manzù con la materia, che in un primo momento è il legno, poi l’interesse si sposta sul bronzo, senza trascurare il marmo. È stato lo stesso scultore ad affermare: «Io non so cosa sia l’arte. Alla base della mia attività c’è il mio mestiere, c’è la materia. La materia bisogna vincerla e per vincerla bisogna conoscerla, ossia possedere il mestiere e la tecnica».

A questo tema è dedicata l’apertura della mostra che vede accostati la Donna che guarda – uno dei pochissimi lavori in ebano, che richiama proprio gli esordi dell’artista –, un busto in marmo della bellissima e amata Inge (Schabel) e un piccolo cardinale, ancora in marmo. «Inge è stata la mia unica modella, una modella così importante che ho sentito la necessità di sposarla», dichiarò Manzù. È probabilmente da rintracciare nella sua formazione non accademica anche la ragione della grande libertà nella scelta dei soggetti, che in mostra sono riuniti in nuclei coerenti. Vi si trovano le sedie, le figure, gli strip-tease, gli amanti, le donne, i bambini, la mitologia e ovviamente i celebri cardinali; uno dei quali si incontra pure in una seconda sede, l’ex chiesa di San Vittore. Osservando più da vicino le opere, risulta subito evidente come le Sedie, su cui lo scultore spesso “appoggia” delle nature morte molto suggestive, rappresentino il suo vissuto. Non a caso Manzù aveva appeso nel suo atelier proprio una sedia di paglia ereditata dal padre: un simbolo di semplicità casalinga, povero e umile, e un ricordo d’infanzia. «I soggetti da me preferiti, spesso più volte ripetuti in continue varianti, sono i più vicini alla mia natura di uomo semplice: la mia compagna, i miei figli, certi fenomeni strutturali che mi hanno attirato fin dall’infanzia, come la potenza racchiusa in un sasso, o certi oggetti che mi hanno accompagnato da bambino, come la sedia che ereditai da mio padre», afferma l'artista.


Busto di Inge (1979), particolare.


Donna che guarda (1976-1983), particolare.


«INGE È STATA LA MIA UNICA MODELLA, UNA MODELLA COSÌ IMPORTANTE CHE HO SENTITO LA NECESSITÀ DI SPOSARLA», DICHIARÒ MANZÙ