Vi sono molti artisti contemporanei che si sono cimentati col tema della merda, di per sé un soggetto facilmente assimilabile a qualcosa che ha poco valore e collegato alla poetica della bruttezza e dello scarto naturale. Difficilmente qualcuno potrebbe cadere preda di una sindrome di Stendhal osservando queste opere.
Ma in un periodo storico in cui ha molta importanza l’idea irriverente, l’aspetto concettuale di un’opera o di una ricerca, il soggetto, la qualità formale o l’abilità tecnica dell’artista non hanno più il peso che avevano in passato. Mi riferisco, per esempio, a Bear Sculpture (1992) di Paul McCarthy, un impertinente orso di peluche colto con un sorriso mentre sta defecando; a Complex Shit (2008) o a Complex Pile (2007), ovvero enormi stronzi gonfiabili realizzati dallo stesso artista americano e presentati, rispettivamente, nelle esposizioni East of Eden. A Garden Show allo Zentrum Paul Klee di Berna (2008) e Mobile M+: Inflation! nel distretto culturale West Kowloon di Hong Kong (2013); a Cloaca (2000) di Wim Delvoye, una grande installazione di vasi alchimistici in grado di fungere da intestino artificiale che trasforma il cibo in merda; a Excremento y Caviar (2011) di Wilfredo Prieto; alle feci monumentali realizzate nel 2018 dal collettivo austriaco Gelitin. Queste indagini visuali sul fecale hanno radici più antiche e arretrano nel tempo, passando dagli anni Sessanta del Novecento all’Ottocento, fino al Medioevo.
Merda d’artista (1961) di Piero Manzoni parrebbe una parodia delle Scatole d’amore in conserva (1927), una raccolta di racconti di Filippo Tommaso Marinetti, illustrata da Carlo Petrucci e Ivo Pannaggi. L’artista milanese trasforma la scatoletta di latta che contiene amore in qualcosa che è ritenuto di basso valore. L’idea di Marinetti anticipa un processo che verrà sdoganato e declinato in molte varianti dalla Pop Art negli anni Sessanta. Manzoni probabilmente parte da un’idea di Marinetti, ma concepisce il rapporto materia- contenuto in una maniera opposta rispetto alle intenzioni futuriste. L’atteggiamento di “rottura” che accomunava Manzoni, Fontana, Burri, Schifano e altri artisti italiani di quel periodo discende dalle “soirées” futuriste. Ma questo atteggiamento è riscontrabile anche nelle opere dei dadaisti e nei ready-made demistificatori e ironici di Duchamp, soprattutto nell’Orinatoio del 1917. Ma prima ancora, nel 1898, già Toulouse-Lautrec era stato protagonista in una serie di fotografie (scattate dall’amico di infanzia Maurice Joyant) con la sua beffarda azione intitolata Performance contro il mondo, merda d’artista sulla spiaggia, dove il noto pittore è colto in vari momenti mentre sta andando di corpo. Anche Alfred Jarry, attraverso la figura principale della sua opera teatrale Ubu roi (1896), conferisce dignità letteraria alla parola “merde”. Successivamente prendono corpo le “coprolalie” surrealiste.


