In parole più semplici: Hieronymus Bosch è una personalità misteriosa che sul piano critico offre una serie nutrita di problemi (in parte insolubili ancora oggi), ma che è capace di affascinare critici e spettatori appartenenti a epoche e a culture diverse, già solo con la sua straordinaria capacità d’invenzione. Chiunque egli fosse, e le possibilità sono molte, Bosch fu (e rimane) una personalità di eccezione, un caso limite, per certi aspetti assolutamente isolato e irripetibile.
Nell’immensa produzione figurativa mondiale ispirata al “demoniaco”, che va dalla cattiveria maligna delle immagini egiziane e mesopotamiche alla violenza spaventosa e bestiale di quelle tibetane, attraverso le strane congruenze dei demoni gotici di Francia e d’Italia con quelli dell’arte greco-buddhista del Gandhara (anteriori di un millennio), i demoni di Bosch, impostati sulla mescolanza delle forme, hanno un posto a sé. Anche perché le “mescolanze” non si limitano al mondo animale, ma includono manufatti umani (come il “cavallo-orcio” e altri esempi), accrescendo il dominio del demoniaco ed espandendolo anche all’inanimato e al frutto del lavoro umano, con un effetto di ripugnanza e di sconcerto in coloro che osservano le sue opere.
Ne è un esempio tipico l’essere semiumano dalla testa di uccello coperta dall’imbuto che, nelle Tentazioni di sant’Antonio a Lisbona, porta sui pattini la propria grottesca deformità. Il suo becco, normalmente ricurvo in un senso nella parte superiore e in senso inverso in quella inferiore, incrocia assurdamente le due parti così da escludere presa e chiusura. E la parte inferiore reca infilzato un plico con una scritta non chiara: forse «Bosco». Si è poi pensato a «protio», abbreviazione per “protestatio” (Massing 1994), ovvero “citazione in giudizio”, ma perché sia tale, la parola va letta a rovescio, riflessa in uno specchio, alla maniera di Leonardo.
Nei demoni di Bosch si spande spesso una vibrazione consimile alla grossolanità ridicola di quelli buddhisti dell’India centromeridionale e un’eco lontana dei tratti caricaturali con cui si definiscono certe figure demoniache minori nell’arte cinese e giapponese. Sono corrispondenze tenui, che si possono rilevare più per intuizione che per analisi e confronto, e che non possono avere base storica alcuna, per accertata impossibilità specifica; eppure manifestano in lui una visione del demoniaco, del male e del difforme che sembra capace di sintetizzare l’intera esperienza umana nella rappresentazione del male.
Tuttavia, l’enigma di Bosch non si incentra solo sul demoniaco, anche se è questo che colpisce di più, e sarebbe assai riduttivo considerarlo solo come creatore di fantasie “bizzarre”. L’enigma è molto più complesso e profondo.
Dal punto di vista professionale, Bosch ebbe una notevole fortuna anche in vita e le sue opere furono subito apprezzate per le indiscutibili capacità tecniche e per la strana bellezza delle sue composizioni. Non per nulla Filippo il Bello gli commissionò un Giudizio universale di 9 piedi di altezza per 11 di larghezza, pagandogli trentasei “livres” (una somma non piccola) di anticipo (un’opera che parte della critica recente – Elsig 2004 – identifica con il trittico di Vienna dell’Akademie der bildenden Künste, datata così al 1504), mentre Margherita d’Austria, sorella dello stesso Filippo, aveva un Sant'Antonio suo, di media grandezza, fra i beni personali inventariati nel 1516 (proprio l’anno della morte di Bosch).
Questo, però, non significa affatto che egli fosse compreso e apprezzato a fondo. Ce lo dimostrano le notazioni dell’antica critica che lo riguardano. Il nobile veneziano Marco Antonio Michiel sottolinea un aspetto tecnico e asserisce che Bosch, pur essendo fra i primi a trattare la «pittura a oglio», riuscì a essere «alquanto più morbido degli altri»(2) .Certo, si poteva dire qualcosa di più.
Si noti però che, anche in Italia, i pittori fiamminghi godevano di molta fama per l’uso dell’olio su tavola. Vespasiano da Bisticci racconta infatti che Federico da Montefeltro, «per non trovare maestri a suo modo in Italia, che sapessino colorire in tavole a olio, mandò fino in Fiandra, per trovare uno maestro solenne, e fello venire a Urbino, dove fece fare molte pitture di sua mano solennissime»(3) . Il «solenne» pittore era Joos van Wassenhove, noto in Italia come Giusto di Gand.

