LA PELLE
DI CANOVA

Come lo scultore “finiva” le sue statue

Abbiamo detto come sia importante per la scultura, e per la scultura di Canova in particolare, la superficie del marmo. Non abbiamo detto quanto questa sia delicata, e quanto indelicatamente è stata trattata dai posteri.
Il biancore cimiteriale del marmo di Carrara, che nel Novecento è stato rimproverato alle sue statue come una colpa, non è proprio colpa del Canova, ma di coloro che volendo pulire i suoi marmi dalla polvere, o dall’ingiallimento della patina di cera che era stata loro data originalmente, hanno in realtà letteralmente scuoiato le sculture dell’artista.
Il passato è passato, ma queste torture indiscriminate continuano a praticarsi ancora oggi da restauratori senza buona pratica e senza criterio, senza rendersi conto che non si rovina un dettaglio dell’opera, ma la sua stessa essenza.
Canova aveva del marmo scienza profondissima e aveva chiara coscienza delle particolarità del marmo di Carrara rispetto ai più fini marmi di Grecia usati dai suoi classici predecessori. Egli pensò sempre che il biancore di questa materia andasse in qualche modo attenuato e che i pori del marmo, materia più assorbente delle spugne, andavano “chiusi” offrendo alla luce 13 una superficie compatta su cui essa potesse riflettersi come sull’avorio o sull’alabastro e non restituire, come purtroppo ora si vede in molti casi, l’impressione di contemplare un blocco di sale o di zucchero raffinato.
Troppo lungo sarebbe spiegare come, nel corso della sua vita, Canova trattasse la “pelle” dei suoi marmi, facendoli lucidare con pomice sempre più impalpabile fino al punto che lo strofinìo anche di un solo granello di sabbia avrebbe potuto rovinare il lustro della materia. Per attenuarne il biancore egli usò certamente la cera, colorandola a volte, ma impercettibilmente, per dare alle parti d’incarnato delle sue statue una lieve apparenza di vita. Sapeva che gli antichi arrossavano le labbra e le guance persino ai loro bronzi, ed egli diede un poco di minio sulle gote e al sorriso della sua Ebe.
La cosa non piacque ai suoi contemporanei. Ed egli cambiò pratica, si accontentò di spennellare le sue statue con “acqua di rota”, cioè con l’acqua che si fa colare sulla mola per non surriscaldare i ferri e gli scalpelli che si arrotano. Dava al marmo un tono più naturale e non ingialliva come la cera.
Col tempo si rese sempre più conto che gli effetti di superficie del marmo sono più efficaci controllando in modi diversi il lavoro della raspa prima ancora della lustratura, e infatti vi sono parti nelle sue sculture dove una residua scabrosità del marmo, là dove si vede ancora il segno del morso del ferro, a distanza rende paradossalmente un effetto di morbidezza inimmaginabile, dando alle ombre quello “sfumato” che nel disegno è possibile con il minuto tratteggio o con lo sgranarsi del lapis sulla rugosità della carta.
Eppure tanto amore e tanto studio è più fragile e delicato del colore di un dipinto, e i nostri restauratori continuano a pulire le sue sculture con la sabbia a pressione.
M. F. A.


Paolina Borghese come Venere vincitrice (1804-1808), particolare; Roma, Galleria Borghese.