LO SCULTORE
DI POSSAGNO

È pratica comune, e sleale certamente, riferire alla tenera infanzia di un uomo diventato poi grande e famoso, le ragioni della sua grandezza e della conseguente fama.

Così Michelangelo stesso, per bocca dei suoi biografi, ci ha fatto sapere di essere stato allattato da una balia figlia e moglie di scalpellini, e d’aver forse preso già con il latte quell’amore per il marmo che fu la passione della sua vita. Antonio Canova nacque il primo novembre 1757 in una famiglia di tagliapietre e scalpellini, pratici d’architettura e per un tempo anche padroni di cave in Possagno. Il padre tagliapietre morì giovanissimo quando Antonio era ancora un bambino di quattro anni; il nonno, a cui la madre lo lasciò risposandosi, mezzo rovinato da speculazioni sbagliate, era tagliapietre anche lui.

Fu naturale che anche Antonio, sin da piccolo, fosse messo a far pratica lavorando a scolpire quella pietra per costruzioni e ornamenti architettonici che era l’industria del luogo. Naturale e logico è anche affermare che proprio da questo precoce inizio Canova abbia ricavato quella sua particolare facilità di lavoro. Altrettanto logico che egli non fosse l’unico ragazzino di Possagno messo a lavorare la pietra, eppure nessun’altro dei suoi contemporanei e compaesani divenne noto nella sua arte, né tantomeno il più grande e famoso scultore dell’età contemporanea: nessun’altro fece sì che Possagno, sulle carte geografiche dell’inizio del secolo scorso recasse, per distinguersi dagli altri puntini sparsi ai piedi del monte Grappa, altro che la dicitura «Patria del Canova».

Ma se ci si poteva anche aspettare che un ragazzino come Michelangelo messo a balia in una famiglia di scalpellini finisse per diventare un grande scultore nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, più difficile assai da prevedere, e più straordinario, fu l’esito del figlio e nipote di scalpellini che si ritrovò nella Venezia di Goldoni e Casanova a massacrarsi di lavoro in una bottega di scultura, quella dei Torretti, che potremmo dire mediocre se però non fosse stata una delle più notevoli e famose, da ben tre generazioni.

Non si vuol dire che la scultura veneziana del tempo fosse morta, ma certo vi erano poche e mediocri occasioni di lavorare il marmo se non per decorazione, e lo stucco e la pietra tenera bastavano per le statue da giardino che andavano di moda allora, divinità o pastorellerie prese dalle pitture del Tiepolo e pietrificate alla bell’e meglio. In compenso erano rimaste a Venezia opere dello scultore veneto Antonio Corradini, rimasto ancora famoso per il virtuosismo – ma meglio sarebbe dire senza dubbio bravura – delle sue statue velate, le cui forme son modellate ancor più sensualmente dal panneggio di quanto non sarebbero se apparissero scolpite nude. L’estro del Corradini si consumò altrove in Europa e lasciò il suo ultimo capolavoro, la più erotica personificazione della Pudicizia che si potesse mai scolpire, nella cappella Sansevero a Napoli, prima di morire ultraottantenne nel 1752, cinque anni prima che Canova nascesse.


Danzatrice con le mani ai fianchi (1806-1812), particolare; San Pietroburgo, Museo statale Ermitage. Commissionata da Giuseppina Beauharnais per la sua residenza della Malmaison, fu acquistata alla sua morte, avvenuta nel 1814, assieme alle altre opere canoviane appartenute all’ex imperatrice, dallo zar di Russia Alessandro I.

Autoritratto (1790); Firenze, Gallerie degli Uffizi.