i rilievi proSpettici
e la fortuna
della terracotta

L’assillo sperimentatore di Donatello lo aveva spinto nel frattempo a tentare altre strade espressive, altre tecniche, altri materiali: dopo il fiero Marzocco – il leone araldico, simbolo di Firenze – scolpito in pietra di macigno tra il 1418 e il 1420 per ornare la scalinata del chiostro di Santa Maria Novella in occasione del soggiorno di papa Martino V, dalla metà del terzo decennio del secolo è soprattutto il bronzo, con tutte le sue potenzialità espressive e le suggestioni dell’arte antica, a tentare il genio dello scultore.

La prima opera è una sfida diretta al Ghiberti, maestro riconosciuto e inarrivabile nei getti, al cui grandioso San Matteo, collocato in Orsanmichele nel 1422 come protettore dell’Arte del cambio, Donatello contrappone, nella nicchia della Parte guelfa, il suo San Ludovico di Tolosa, concluso nel 1425: l’esempio forse più eclatante dello sperimentalismo donatelliano. La grande statua in bronzo dorato fu infatti eseguita sezionando in più parti le vesti, modellate attorno a un manichino e fuse separatamente, dorate una a una con l’amalgama di mercurio (la sola tecnica che consentiva alla doratura di resistere a lungo, anche in esterno) e poi riassemblate attorno a un semplice perno interno, su cui s’innestava la bella, sensibilissima testa del santo giovinetto, gravata dalla mitria vescovile. Ancora un audace inganno visivo ottenuto con un inedito virtuosismo tecnico, che consentiva di ridurre notevolmente il peso della scultura e i costi della sua realizzazione. Nonostante questo, il San Ludovico fu l’opera meno fortunata di Donatello e lasciò pochi anni dopo la sua sede prestigiosa per essere confinata a Santa Croce e presto dimenticata: lo stesso Vasari la definì «goffa», per quei panni pesanti e sovrapposti, di pieghe accartocciate, che soverchiano e nascondono il corpo (peraltro, inesistente) dell’adolescente e che invece, ai nostri occhi, rendono poetica e commovente la figura. Forse già all’epoca del trasferimento essa aveva perduto il riccio del pastorale e una porzione di panneggio al braccio destro.

Segue subito al San Ludovico il reliquiario di San Rossore (1425-1427), per i frati di Ognissanti, tecnicamente affine: anch’esso realizzato in più parti, fuse e dorate separatamente, poi ricomposte. Rielaborando la forma tradizionale dei busti-reliquiari trecenteschi, Donatello conferisce al santo una testa di incomparabile forza espressiva, giovandosi anche qui di un’adesione naturalistica, addirittura epidermica, a ogni tratto e ruga del volto, fino a renderlo quasi “parlante”.

Il confronto con la tradizione gotica, con cui Donatello si cimenta, trova una nuova occasione riguardo alla tipologia del monumento funebre quando gli viene assegnata, nel 1425, la Tomba del cardinale Baldassare Coscia – già papa Giovanni XXIII, deposto al Concilio di Costanza nel 1415 e morto a Firenze nel 1419 – che deve trovar posto in battistero. Del monumento, che può considerarsi la prima tomba rinascimentale nonostante il verticalismo imposto dallo spazio ristretto, l’artista eseguirà personalmente soltanto il progetto generale e, in bronzo, la figura giacente del defunto, debitamente inclinata sul catafalco perché fosse visibile anche dal basso: nei tratti ancora tesi del volto, dalle sopracciglia corrugate e dalle palpebre segnate e gonfie, si esprime una sorta di inquietudine e la traccia delle amarezze e delle sconfitte subìte, che neppure la morte ha placato. Tutte le parti marmoree del monumento, dense di elementi classici composti in elegante equilibrio, furono eseguite da Michelozzo – architetto e scultore, legato ai Medici e al Brunelleschi – con cui Donatello è in “compagnia” dal 1425.

L’intenso impegno nella pratica fusoria e di cesello cui Donatello si dedica nel corso degli anni Venti gli procura una prima commissione fuori Firenze: l’Opera del duomo di Siena gli affida nel 1423, al posto dell’inadempiente Jacopo della Quercia, più parti del Fonte battesimale del battistero, in corso di esecuzione dal 1417 ad opera di vari maestri senesi e con la supervisione di Lorenzo Ghiberti. Oltre ai Putti danzanti e musicanti del coronamento, a due figure di Virtù, e allo sportello (perduto), Donatello vi realizzò il rilievo raffigurante il Banchetto di Erode, di una straordinaria novità narrativa e prospettica, concluso nel 1427 ed eseguito a Firenze. La drammaticità del tema ispira a Donatello una sorta di esperimento spazio-temporale, che va oltre lo “stiacciato” prospettico. Per ambientare e scandire la dinamica delle azioni, egli scompone e ricompone i diversi momenti del dramma in un unico spazio architettonico articolato, in cui gli eventi si succedono in ordinata successione: dal fondo, dove il carnefice presenta a Salomè la testa del Battista, appena decapitato; alla parte mediana, in cui si segue il percorso dei servitori che recano il macabro trofeo attraverso i corridoi della reggia; fino alla sala del festino, in primo piano, dove il fatto si conclude: mentre il servo inginocchiato presenta a Erode l’orribile tributo, i convitati si accalcano inorriditi a destra e a sinistra lasciando vuoto il centro della scena, col suo pavimento in scorcio prospettico. Complessa anche la tecnica del rilievo, fuso in tre parti, poi perfettamente riunite e cesellate in ogni dettaglio.


Marzocco (1418-1420); Firenze, Museo nazionale del Bargello.

Marzocco (1418-1420); Firenze, Museo nazionale del Bargello.

Busto-reliquiario di san Rossore (1425-1427); Pisa, Museo nazionale di San Matteo.