Il primo quadro che si conserva di questo momento signoriniano è il bozzetto del Merciaio di La Spezia, una piccola tela che sembra rappresentare il punto di concentrazione di un problema che di lì a pochissimi anni diverrà di importanza fondamentale. L’alternarsi delle ombre e delle luci, rapidissimo, segna lo stadio di un particolare affioramento ottico; l’immagine per ora è tutta qui, in questo impulso primario di definizione manichea fra luce e ombra. Ma già l’anno dopo, con il bozzetto per l’Alt di granatieri toscani a Calcinato (esposto alla Promotrice insieme a un altro quadro di battaglia, L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino), Signorini dimostrerà di aver maturato il nodo della “macchia” chiaroscurale. E sarà evidente nel quadro estremo e forse più interessante di questa fase, La cacciata degli austriaci dalla borgata di Solferino, dipinto nel 1860, notevole soprattutto per un particolare uso quasi motorio dell’effetto-luce sopra i personaggi.
Lo stesso anno, o l’anno successivo, Signorini eseguì l’opera che, esposta alla Promotrice di Torino, suscitò un attivo e vivificato scandalo: Il ghetto di Venezia, oggi perduto. L’opera, dipinta certamente dietro l’esempio di De Camps (conosciuto nella collezione Demidoff), fu definita da Camillo Boito «senza forma, violentissima di colore più orientale che veneziano».
La testimonianza di un simile modo di far pittura si ha in un quadro eseguito da Signorini nei mesi seguenti, durante un soggiorno in Liguria a cui parteciparono anche Cabianca e Banti. Le Pescivendole a Lerici, pur trattenendo ancora nel suo fasto coloristico elementi d’orientalismo romantico, si definisce soprattutto per una luce costruttiva che permette una vera e propria modulazione di elementi narrativi attraverso il peso di un lume direttamente misurato sopra il volgersi delle figure.
Effetti molto simili sono raggiunti contemporaneamente da Cabianca negli Avanzi della chiesa di San Pietro a Portovenere, costruito con forti partiture di luci e ombra. Ma i suoi due quadri di maggiore originalità, Marmi a Carrara Marina e Le monachine, presentano una scalatura luminosa più omogenea, a luce totale, con un effetto di “reale visivo”. Queste due opere segnano forse il punto più intenso e originale dell’intera attività di Cabianca, e tanto più singolare è l’effetto ottico se si tiene conto che le opere furono eseguite in studio a Firenze da appunti o schizzi dal vero, come dimostra il bozzetto degli Avanzi della chiesa di San Pietro, conservato alla Galleria d’arte moderna di Firenze.
Questa sorta di manicheismo luminoso creò in quegli anni al Cabianca la fama d’essere il più radicale e intransigente tra gli sperimentatori della macchia. Purtroppo tale fama fu legata all’esecuzione di alcune opere oggi perdute, nate da soggiorni fatti in compagnia di Cristiano Banti (pittore fra i più colti della nuova generazione) prima a Montemurlo nel territorio pratese, e poi a Piantravigne nel Valdarno, subito dopo il compimento di un loro viaggio parigino al Salon del 1861 insieme con Signorini. Le loro poche opere conosciute di questo momento mostrano esatti rimandi a Corot e soprattutto a Jules Breton, che forse era stato, tra i grandi della mostra parigina, il pittore più guardato dai tre toscani. E la Riunione di contadine di Banti e le Contadine in toscana di Cabianca sono singolari documenti di questo bretonismo tutto sommato moderatore. Sono perdute invece Porcile al sole, Mandriana e Donna con un porco sotto il sole, le tre opere di Cabianca che sembra dovessero costituire gli esiti più avanzati in senso strettamente “macchiaiolo” della tecnica ottica del pittore, probabilmente aiutata dallo specchio nero di cui anche l’amico Banti faceva sempre uso.
In questi anni di sperimentalismo e di comuni entusiasmi, iniziano la loro attività in seno alla pittura rinnovata coloro che (Signorini a parte) saranno i maggiori artisti della stagione toscana: Giovanni Fattori, e poi Raffaello Sernesi, Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani e infine, in una sua particolarissima misura, Silvestro Lega.
Fattori, alle prese con il problema del quadro storico, vinse il concorso bandito nel 1859 dal Governo provvisorio per un quadro rappresentante Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta. Con questa seconda opera si definiscono chiaramente la struttura e l’ideologia fattoriana del quadro di storia contemporanea: vi sono riprese le strutture sintattiche tradizionali, ma rinnovate da una sensibilità inedita che riesce a ricostruirle attraverso un’esperienza ottica diretta. Ciò fa del bozzetto per Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta il primo capolavoro di Fattori.



