LE PREMESSE La crisi della civiltà figurativa italiana a metà dell’Ottocento è problema ben noto. esta infatti ancora evidente lo scompenso tra la perdita di valori in quello che era stato per secoli il patrimonio culturale più ricco e fertile della nostra civiltà e la vitalità che nello stesso Ottocento dimostrano da noi la tradizione letteraria (capace di rinnovamento ed esiti eccezionali) e soprattutto quella musicale, che resterà per tutto il secolo punto di riferimento indiscusso, anche se spesso polemicamente contraddetto, per l’Europa intera. R Nei giovani artisti attivi intorno al 1850 si avvertiva in forma singolare il disagio che identificava gli spiriti di ribellione sociale e politica – e di conseguenza il fervido e sofferto sogno unitario nazionale – con un’attiva volontà di riforma in senso “europeo” dei generi pittorici affermati; in particolare, di quel romanticismo storico a cui ormai quasi tutti i più evoluti tra loro avevano aderito. Anno cruciale di questi eventi rinnovatori fu il 1856. In tale anno, a Firenze, i giovani frequentatori del Caffè Michelangiolo in via Larga (oggi via Cavour), punto di ritrovo degli artisti della vicina Accademia, avvertirono con maggior nettezza la necessità di confrontare il loro operato con ciò che andava accadendo in ambito europeo, e soprattutto con quanto di più aggiornato si faceva in quel momento in Francia. In quell’anno, inoltre, a Firenze il principe Anatoli Demidoff aveva aperto al pubblico le sue celebri raccolte conservate nella villa di San Donato in Polverosa, che fra l’altro testimoniavano la grande raffinatezza e l’aggiornamento del suo operato di collezionista. Nella collezione erano presenti i massimi artisti contemporanei di Francia: da Ingres a Corot, a Delacroix, fino ai maggiori paesisti di Barbizon, a Decamps, e a quel Delaroche che per gli artisti (e non solo per quelli fiorentini) appariva allora il vero «rammodernatore» della pittura storica. Nello stesso 1856 erano giunti a Firenze due napoletani: Domenico Morelli e Saverio Altamura. Morelli, fra tutti i giovani pittori italiani emergenti, era certo il più direttamente informato sugli eventi europei, avendo viaggiato in Germania, Francia, Inghilterra e Belgio. La sua natura fervida, entusiasta, comunicativa, sostenuta da un modo di far pittura di «colorito nuovo, brillante, argentino, il tono buttato giù con scioltezza meridionale, il chiaroscuro potente...» come scriverà Diego Martelli, era inoltre dotata di uno straordinario proselitismo e di una spiccata volontà di riforma pittorica “nazionale”, che sentiva di poter esercitare apertamente nella “evoluta” Firenze molto più che nella sua città d’origine, che pure in quegli anni era ricca di nuovi fervori pittorici. Giunto dunque in Toscana con il collega e compatriota Bernardo Celentano, vi si trattenne periodicamente, esponendo nel 1861 , opera che aveva avuto straordinario successo già nel 1855 a Napoli e che a Firenze «fece fanatismo». Il soggetto storico secondo l’esempio di Delaroche, calato in una sorta di “presa diretta” carica di sentimenti attivi e definita da un dipingere saldo di contrasti luce-ombra e di forti partiture narrative, appariva ricercato sui metri di una sensibilità assolutamente contemporanea, a cui Morelli aggiungeva una scioltezza di pennellata e di effetti materici e di risalti luminosi di nobilissima origine secentesca napoletana. Gli iconoclasti A questa particolare riforma morelliana del quadro storico si aggiunse l’interesse che un altro napoletano esule, Saverio Altamura, giunto da una visita all’Esposizione nazionale di Parigi, stava suscitando nei giovani fiorentini per la novità tecnica della più aggiornata pittura francese: il “ton gris”, cioè quel particolar modo di ritrarre il vero di natura riflettendolo sopra uno specchio nero che ne filtrava nettamente i contrasti di chiaro e di scuro. Un terzo pittore, Serafino De Tivoli, livornese e anch’egli proveniente da Parigi, servì poi, con la sua diretta testimonianza, da decisivo “trait d’union” con quegli artisti che i giovani fiorentini avevano ammirato nella collezione Demidoff e di cui lui stesso aveva frequentato gli studi: Constant Troyon e Rosa Bonheur in testa. I tre giovani, europeizzati, ferventi di idee patriottiche, tesi a rinnovare nella pittura il senso dell’idea nazionale che si andava attuando, focalizzarono e scossero l’interesse dei più attivi frequentatori del Caffè Michelangiolo: Odoardo Borrani, Vito D’Ancona, Ferdinando Buonamici, Giovanni Mochi, Giuseppe Moricci e, infine, Telemaco Signorini, fra tutti il più disponibile all’avventura culturale, reduce allora da un viaggio a Venezia compiuto con Enrico Gamba e Frederic Leighton, durante il quale eseguì “dal vero” alcune telette che, nella loro spigliatezza ottica, segnano l’anticonvenzionalità e lo sperimentalismo dei suoi inizi. Antonio Puccinelli, Ritratto della nobildonna Morrocchi (1858 circa); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna. Giovanni Fattori, Autoritratto (1854); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna. Silvestro Lega, Autoritratto (1853 circa); Firenze, Gallerie degli Uffizi. Adriano Cecioni, Il Caffè Michelangiolo (ante 1866). Al Caffè Michelangiolo, situato in via Larga, oggi via Cavour, approdarono dal 1855 al 1863 quasi tutti i pittori che avevano partecipato alla campagna di Lombardia nel 1848 e alla difesa di Venezia, Bologna e Roma nel 1849. L’acquerello di Cecioni raffigura una di quelle riunioni che egli stesso così descrive: «Quando la discussione sull’arte si faceva più animata, gli artisti che formavano gli altri crocchi si accostavano al tavolino dei battaglieri, alcuni prendendo parte alla discussione, altri rimanendo passivi ascoltatori; e questi poi, ritornando sulle cose udite, facevano tra loro delle discussioni separate. Era un corbellare, fine e reciproco, ora gli entusiasmi quarantottini del Lega, ora il pizzo del Cabianca, la bazza del Fattori, la bocca del Signorini, gli occhiolini del Rivalta e il nasone di Nino Costa [...]. Poi fra le risate nasceva una discussione, colla quale si mettevano in rilievo tutti i torti dell’arte greca, e si terminava mettendo in ridicolo le opere più rinomate, principiando dall’Apollo del Belvedere». Cristiano Banti, Torquato Tasso ed Eleonora d’Este (1858), bozzetto; Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna. Antonio Puccinelli, La passeggiata del Muro torto (1852). La riqualificazione della pittura toscana avveniva nell’ambito di una coscienza storica generale che, in pochi anni, cementò gli interessi e dette ai singoli la possibilità di ridefinire con nuova chiarezza le proprie individualità. Una coscienza dell’atto culturale alla quale servì da elemento catalizzatore la personalità del giovanissimo Diego Martelli, intellettuale e scrittore, che sarà per i nostri pittori continuo riferimento di interessi e chiarificazioni. Queste “nuove” esperienze tecniche, che dovevano confluire nella definizione della “macchia” (accentuazione del chiaroscuro per stabilire il valore strutturale della lucecolore contro l’“alleggerimento” della tecnica a velature), erano già esercitate da qualche anno in ambiente fiorentino. Furono infatti applicate soprattutto alla definizione del “bozzetto” di storia da una schiera di pittori di cui facevano parte, tra gli altri, anche alcuni futuri macchiaioli, come Cristiano Banti, Vito D’Ancona e Vincenzo Cabianca, Stefano Ussi, Giuseppe Moricci e quell’Antonio Puccinelli che nel 1852, durante un suo pensionato romano, aveva applicato questa tecnica al “paesaggio animato” nella , prototipo, anche se occasionale e forse non meditato, della futura prassi macchiaiola. Passeggiata del Muro torto Questo interesse per l’effetto strutturale della luce-colore, per la macchia costruttiva scuro su chiaro, fu dunque ravvivato e fatto divampare da Morelli, da Altamura, da De Tivoli in un ambiente che già per altra via ne aveva iniziata la sperimentazione e che ora era pronto a riproporlo come nuova forza polemica. Bisogna dire che, in anni in cui Silvestro Lega era ancora legato allo stile di Mussini, Giovanni Fattori era studente all’Accademia e Telemaco Signorini esponeva opere di intransigente romanticismo (tanto per citare coloro che saranno i tre protagonisti della nuova stagione), a Firenze si era formato un gruppo di giovani appassionati di un “genere” allora quasi desueto nella tradizione toscana: il paesaggio. Essi avevano dato vita a una sorta di comunità chiamata “scuola di Staggia” (vi appartenevano Carlo Ademollo, Lorenzo Gelati, Carlo e Andrea Markò, il napoletano Nicola La Volpe), capitanata da Serafino De Tivoli. Delle opere allora dipinte da questi pittori non ne è sopravvissuta neppure una sicura, ma si può presumere che questa focalizzazione di interessi sul paesaggio sia un diretto antecedente a quello spostamento della sperimentazione della macchia dal bozzetto di quadro storico o d’interno all’esterno di natura, spostamento che si attuerà subito dopo il 1859. Ai dibattiti accesissimi che si svolgevano nelle sale del Caffè Michelangiolo in quel cruciale 1859 poco partecipava Silvestro Lega, temperamento davvero non facile agli entusiasmi di rinnovamento, ancorché addirittura facinoroso nei suoi fervori unitari e repubblicani. Egli aveva già da qualche tempo iniziato il suo distacco dallo stile di Antonio Ciseri, suo diretto maestro in quegli anni, e stava eseguendo nella natia Modigliana quattro lunette d’allegoria religiosa nelle quali è ben evidente il suo progressivo avvicinamento alla “nuova scuola”, che doveva però attuarsi solo due anni dopo. Più assiduo frequentatore di quegli stessi dibattiti, Giovanni Fattori era già in piena crisi di rinnovamento, con quell’autonomia anche esecutiva che sarà suo continuo carattere per tutto l’arco della sua esistenza. Della sua attività sino a quegli anni poco ci è rimasto, se non testimonianze rarissime di un ciserismo non immune da adesioni allo stile del Pollastrini. Fu soltanto con un’opera come la che, pur ritentando il genere del quadro di storia, egli darà chiari segni di un rinnovamento che si attuerà negli stessi mesi colmi di entusiasmi patriottici. Maria Stuarda al campo di Crookstone L’unico dei futuri “maggiori” che affrontò direttamente il problema per cui le nuove sperimentazioni sulla pittura a macchia dovevano lasciare l’ambito consunto del quadro storico per essere verificate sulla “natura” e sul diretto problema della luce fu Telemaco Signorini. Egli trovò piena rispondenza d’opinioni in Vincenzo Cabianca, nato a Verona e presto trapiantato a Firenze, fino ad allora pittore di di una dissonanza prossima agli esempi dei fratelli Induno, che divenne in quei mesi tra il 1859 e il 1860 il più radicale assertore delle nuove teorie. Domenico Morelli, Gli iconoclasti (1855); Napoli, Museo di Capodimonte. Serafino De Tivoli, Pastura (1859); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna. Giovanni Fattori, Maria Stuarda al campo di Crookstone (1859-1861); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.