STORIA
E POESIA

In gioventù Manet non sembra minimamente interessarsi a soggetti storici.

Nel giugno 1864, al largo di Cherbourg, accade un fatto fuori del comune: una corvetta nordista americana, il Kearsage, attacca e affonda una nave corsara delle forze confederate, l’Alabama. Non sappiamo se effettivamente il pittore abbia assistito a questa battaglia navale. Riesce comunque a renderne in modo particolare la violenza e la tragica conclusione, eliminandone il carattere eroico e adottando un angolo di visuale che ne attenua la forza evocatrice e la dimensione dimostrativa.

Il 19 giugno 1867, Massimiliano d’Austria, da poco imperatore del Messico, viene fucilato a Queretaro. Manet rimane colpito da questo avvenimento brutale e immediatamente comincia a trasporre questa scena partendo dai documenti apparsi sui giornali. Di nuovo trae un canovaccio da un quadro antico: Il 3 maggio 1808: fucilazione alla Montagna del principe Pío (1814) di Goya, che ha visto al museo del Prado durante un viaggio in Spagna due anni prima. Si affretta a finire l’opera per poterla includere nell’esposizione all’Alma; ma ciò non gli viene concesso per motivi politici. Dopo un soggiorno a Trouville, la riprende da capo a piedi. Mantiene la messa in scena precedentemente ideata, ma cambia le uniformi del plotone d’esecuzione: da messicane, diventano francesi. Nella versione definitiva appaiono dei visi che si stagliano sopra il muro come nelle corride di Goya. Come è ormai sua abitudine, Manet crea una palese contraddizione tra la natura patetica della morte dell’infelice Massimiliano e la freddezza tonale della sua tavolozza, l’uniformità dei colori, la mancanza d’emozioni, lo scorcio spaziale. Il dramma storico è trasformato dal dramma plastico e dà l’impressione di essere pressoché cancellato. Dopo questa esperienza, Manet non affronterà mai più quello che ancor oggi si chiama un grande tema.

Baudelaire, suo amico e guida spirituale, si spegne nel 1867. Ma già Manet ha trovato un aiuto prezioso nella persona di un giovane scrittore che si sta lanciando con entusiasmo nella carriera giornalistica: Émile Zola. Questi s’infiammerà per l’opera dell’artista e nel maggio 1866 appare un articolo nelle colonne dell’“Evénement”. È una vera e propria arringa: «Giacché nessuno lo fa, sarò io a dirlo, a gridarlo. Sono talmente certo che Manet sarà uno dei maestri di domani, che, se avessi un patrimonio, penserei di concludere un buon affare comprando oggi tutte le sue tele». Alcuni mesi dopo, pubblica nella “Revue du XIXe siècle” uno studio biografico e critico altamente elogiativo.

Per suggellare un patto con questo insperato alleato, Manet ne fa il ritratto: Zola è seduto, vestito con una giacca di velluto e dei pantaloni grigi e con in mano un libro di incisioni; dietro a lui, vari oggetti ammonticchiati: libri in disordine, carte, una pipa in un vaso laccato, la monografia che egli ha dedicato al pittore; sul muro spicca una riproduzione dell’Olympia, il frammento di un’incisione dei Beoni (Borrachos) di Velázquez e una stampa di Utamaro; a sinistra è posto un paravento giapponese. È questo il ritratto che si ripropone di inviare al Salon del 1868 insieme alla Donna con pappagallo (Femme au perroquet) della quale Zola si è compiaciuto di dire che è caratterizzata da un’innata eleganza.


Ritratto di Émile Zola (1868); Parigi, Musée d’Orsay.

Ritratto di Stéphane Mallarmé (1876); Parigi, Musée d’Orsay.