Dandy ed esteta, Manet frequenta il Café Tortoni, ritrovo di intelligenze fin dall’epoca romantica, come pure l’elegante Café de Bade. Fa poi parte del cenacolo di habitué della Brasserie des Martyrs dove si incontrano e incrociano Edmond Duranty, il fondatore della rivista “Réalisme”, il critico Castagnary, il poeta Théodore de Baville, il fotografo Nadar, il giovane Gambetta, Charles Baudelaire, gli emuli di Gustave Courbet.
Il Café Guerbois soppianta ben presto la birreria Murgeriana. Manet lo trasforma in un vero e proprio quartier generale, situato a due passi dal suo studio, proprio di fronte al suo fornitore di colori. Vi si riuniscono regolarmente Whistler, Fantin-Latour, Duranty, Zola, Constantin Guys, Duret e, più tardi, Edgar Degas, Claude Monet, Pissarro, talvolta anche Sisley e Cézanne. È lì che, sotto l’egida di Manet, vengono definiti i princìpi generali dell’impressionismo prima della guerra del 1870 con la Prussia. Il posto, descritto da Zola nel romanzo L’Œuvre, viene celebrato da Manet nella persona del proprietario, Émile Bellot. Il quadro presentato al Salon del 1873, s’intitola all’origine Le bon bock (Il buon boccale di birra). Discostandosi dalla fattura forte e realista di Franz Hals, fa dire a Wolff: «Manet ha messo dell’acqua nel boccale» e costringe il pittore Alfred Stevens, altro habitué, a replicare: «Acqua nel boccale? È purissima birra di Haarlem».
Il Café Guerbois viene a sua volta abbandonato per la Nouvelle Athènes che George Moore decanta con trasporto nelle sue memorie, facendone il ritrovo degli intellettuali parigini. Manet vi regna ancora da sovrano, ma deve far fronte a un concorrente di pari livello, Degas. È lì che Manet ritrae Moore nel 1879 mentre sogna sulla sedia; è lì che immagina l’Homme qui rit, un sorridente giornalista, che sospende un gesto per guardare verso lo spettatore. Così Manet è riuscito a incarnare quella rivoluzione pittorica che prepara un mutamento profondo e irrevocabile, che rappresenta le fondamenta dell’arte, un mutamento d’epoca inevitabile. Ma quando gli si chiede di partecipare alla prima esposizione di Artisti Indipendenti presso Nadar, nel 1874, si tira indietro: non si riconosce nell’avventura impressionista. Non gli ha forse predetto Émile Zola: «Vi meritate di vivere appartato»?
All’inizio del 1868, mentre passeggia nelle gallerie del Louvre insieme a Fantin-Latour, Manet vede una giovane splendida donna che sta copiando un quadro di Rubens. Lo attrae, anzi, lo affascina. L’amico gliela presenta: si chiama Berthe Morisot. Sa bene che è un’artista di qualità formatasi sotto l’influenza di Corot. Si è persino ispirato alla sua Veduta di Parigi, dalla collina del Trocadero (Vue de Paris, prue des hauteurs da Trocadéro) per la sua Esposizione universale. Da parte sua, essa ammira questo pittore che non rinuncia mai alle proprie esigenze e intransigenze, in definitiva a tutto ciò che è racchiuso nel termine ideale. La loro relazione, il loro amore, di cui non si conoscono i particolari, si esprime unicamente attraverso la finzione dell’arte. Non vede l’ora di farle il ritratto. È da questo desiderio che nasce il Balcone. Le chiede consiglio, conoscendone l’esperienza per gli esterni all’aria aperta. Ella è uno dei quattro personaggi di quella scenografia solenne e disincantata. Come nel Déjeuner, finito in precedenza, gli sguardi dei personaggi sono sfuggenti, si perdono, non manifestano né sentimenti né affetti. Solo un’infinita malinconia avvolge quel microcosmo dove, nota Georges Bataille, nulla si trova più al suo posto: è una «sistemazione imprevista che sicuramente condizionò Manet poiché nessuna convenzione la giustifica... Il segreto di questo quadro consiste nel fatto che il personaggio centrale, benché messo in rilievo, non richiama l’attenzione».
Eppure, è tutta la sua vita intima che si sprigiona dalle opere nonostante l’apparente distacco. Il giovinetto del Déjeuner dans l’atelier è Léon Koëlla, suo figlio, che ritroviamo nella Lettura, accanto alla madre Suzanne (quella donna riservata che troneggia sussiegosa davanti al suo strumento in Madame Manet al piano del 1868), o nella Galleria coperta di Oloron Sainte-Marie o su un velocipede in una tela del 1871. Victorine Meurent è bruscamente sparita dalla sua vita. Berthe Morisot vi è entrata in pompa magna e si inserisce nella sua autobiografia pittorica con diversi ritratti eseguiti tra 1868 e 1869. Il Riposo del 1870 l’evoca ancora una volta, sontuosa, in abito bianco che spicca sul color prugna del sofà e sui toni marezzati del “kakemono” sul muro.


