Secondo i biografi coevi, lo fece per ottenere dall’Opera del Duomo l’affidamento di grande blocco di marmo
apuano della cava di Fantiscritti a Carrara, alto circa 5 m (abbandonato nel cortile, dopo che l’avevano abbozzato Agostino di Duccio e Bernardo
Rossellino), impedendo che lo scolpisse un altro. Ultimato nel 1504, il David non fu issato in alto – secondo il progetto dell’Opera –
sotto la cupola del Duomo, bensì sulla base del parere espresso da una commissione di esperti fu collocato sull’Arengario dinanzi al palazzo dei
Signori, oggi Palazzo vecchio, dove rimase fino al 1873. La maestosa statua di giovane nudo rappresenta l’eroico pastorello che, secondo la Bibbia,
abbatté il gigante Golia campione dei Filistei con un sasso lanciato dalla fionda. Come simbolo del giusto che, pur fragile, prevale sul forte
iniquo, a Firenze David era diffusamente presente in quanto icona civica della difesa della città-stato contro il nemico, grazie all’aiuto
divino. Ma Michelangelo innova bruscamente la tradizione iconografica di Donatello, di Verrocchio e d’altri, presentando un nuovo canone di bellezza
maschile autorevole e potente, ispirato dalla statuaria colossale antica vista a Roma. Il suo David, percorso da un contenuto ma fremente
dinamismo, bilanciando il peso del corpo raccoglie l’energia per il tiro, mentre con lo sguardo intento fissa il nemico per calcolare la traiettoria
del proiettile. La superficie è lavorata in ogni dettaglio, con una varietà di strumenti, e mirabilmente levigata (come ancora si riscontra nelle
zone protette dagli agenti atmosferici), con solo il tronco e la base rocciosa trattati a rustico.
A distanza di secoli, il David – musealizzato nella Galleria dell’Accademia di Firenze – resta un capolavoro rivoluzionario, emblema dell’arte rinascimentale al suo apice, capace di attrarre l’ammirazione planetaria. Certo per l’immediata fama del “Gigante”, oltre che per le statue romane, in quel 1504 Michelangelo meritò d’essere incluso tra i massimi scultori viventi nel De Sculptura di Pomponio Gaurico, che lo elogiò anche come pittore.
Alla scadenza dei trent’anni, Michelangelo era in ascesa irresistibile, ricercato da committenti di rango, attivo in progetti numerosi e impegnativi (che affrontava da solo o con rari assistenti), anche per far fronte alle pressanti richieste dei familiari, che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.
Nel 1501, mentre iniziava il David, aveva accettato di scolpire quindici statue per la cappella Piccolomini nel Duomo di Siena, già costruita in forma di altare marmoreo da Andrea Bregno: ne fornì solo quattro, San Paolo, San Pietro, e i meno ispirati San Pio vescovo e San Gregorio papa.
Nell’aprile 1503 assunse l’incarico di eseguire dodici Apostoli in marmo per Santa Maria del Fiore, ma ne iniziò solo uno, il San Matteo, che per il suo valore didattico («la quale statua così abbozzata mostra la sua perfezione et insegna agli scultori in che maniera si cavano le figure de’ marmi», Vasari 1568) fu poi esposto nella Galleria dell’Accademia.
In questi intensi anni fiorentini torna a manifestarsi, e diviene ricorrente, quella tendenza di Michelangelo a lasciare incompiute certe opere, che si era rivelata dei due dipinti romani oggi a Londra. Gli effetti che ne conseguono sono abitualmente riuniti sotto la definizione di “non finito”, una sorta di categoria tecnica ed estetica tutta e solo michelangiolesca, anche se le cause e gli effetti variano molto caso per caso. Si hanno progetti abbandonati (Apostoli, Battaglia di Cascina, poi Sagrestia nuova, Libreria laurenziana), grandi imprese ridimensionate (altare Piccolomini, tomba di Giulio II), statue interrotte (San Matteo appunto, Prigioni, David-Apollo, le Pietà senili), ma anche trattamenti intenzionali in scultura, corrispondenti alla sfida dell’artista di ottenere vigorosi contrappunti tra le parti emerse dal marmo, finite e polite, e le parti invece ruvide, abbozzate, indistinte, liberate a fatica o non liberate ancora dal sasso nativo. Della virile lavorazione del marmo «per forza di levare» (opposta alle arti plastiche più facilmente create «per via di porre»), l’artista stesso avrebbe delineato il principio teorico nel celebre attacco del sonetto n. 151, risonante d’echi della filosofia neoplatonica: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto» (dedicato a Vittoria Colonna, 1538-1544). Col togliere il superfluo, l’artista raggiunge e trae alla luce la forma dell’idea racchiusa dentro il blocco opaco, da lui vista in anticipo con intuizione creatrice.