A romA sotto giulio ii
e leone X

Il rapporto fra Giulio II e Michelangelo, di grande stima ma di profonda conflittualità (materia di romanzo), ebbe quale magnifico esito la creazione di capolavori: tra questi, la volta a fresco della Cappella sistina nel Palazzo apostolico, che l’artista prese a dipingere nel 1508.

Dopo accuse a Donato Bramante che avrebbe brigato per dimostrare la sua inadeguatezza come frescante e favorire Raffaello, una laboriosa progettazione grafica e complicazioni iniziali (la struttura del ponteggio, l’allontanamento degli aiutanti, le muffe sul primo affresco), in soli quattro anni Michelangelo aggiunse alla cappella, già dipinta alle pareti dai massimi artisti dell’Italia centrale con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e con pontefici (1480-1482), la straordinario ciclo pittorico che occupa la lunghissima corsia centrale della volta, con le vele, i pennacchi e le lunette intorno. Della sua immensa e solitaria fatica resta memoria nel sonetto n. 5: «I’ ho già fatto un gozzo in questo stento», corredato da un autoritratto caricaturale, che lo mostra deformato dallo stare a testa in su per anni sul ponteggio.

L’iconografia è una vera “summa” cristiana dalla creazione dell’universo agli antenati di Cristo (compresi sette profeti ebrei e cinque sibille pagane), antefatto dell’avvento del Redentore a riscattare i peccati dell’umanità. Ancora si discute su due questioni fondamentali: l’identità di un eventuale «suggeritore» teologo o prelato, e l’effettivo grado di libertà di Michelangelo. È da credere che l’artista seguisse un programma o un testo, per i quali sono stati proposti molti nomi e titoli (il Liber Generationis Jesus Christi, il Credo niceno-costantinopolitano del 381, una composita “teologia del Rinascimento” e altro), e che si muovesse invece in autonomia nelle scelte propriamente artistiche quali schemi, proporzioni, dimensioni, scorci, pose, colori, dorature.

Dopo la Volta sistina, la pittura d’Europa non fu più la stessa. Già la sua parziale scopertura, nel 1511, aveva impresso una svolta allo stile di Raffaello nelle Stanze papali; la sua visibilità completa, dal 1512, fu all’origine della “maniera moderna” fiorentina e italiana e dei suoi sviluppi nell’arco dei secoli, anticipando perfino l’illusionismo in pittura, che avrebbe avuto il suo trionfo nel Barocco avanzato.

Infatti sull’architettura reale Michelangelo ne dipinse una finta, con finte sculture, a suggerire tre livelli: uno è la superficie del muro; uno è “al di qua” di essa, sporgente nel mondo fisico; uno si apre “al di là” di essa, e sfonda verso l’orizzonte all’infinito.

A collegare tra loro i lati lunghi della cornice, provvedono come “ponti” delle fasce architettoniche piane, che spartiscono le nove scene. Così il biografo Condivi, certo guidato da Michelangelo, descrisse la struttura dipinta: «una cornice che intorno cinge tutta l’opera, lasciando nel mezzo della volta, da capo a’ piè, come uno aperto cielo. Questa apertura è distinta in nove liste, percioché dalla cornice sopra i pilastri si muoveno alcuni archi scorniciati, i quali passano per l’ultima altezza della volta e vanno a trovare la cornice dell’opposita parte, lasciando tra arco e arco nove vani, un grande e un picciolo». Nei vani, o spazi (in cui uno “sfondato” si alterna a un “quadro riportato”), si susseguono le scene bibliche: tre per la Creazione, tre per i Progenitori, tre per il riscatto della prima umanità. Dio Padre, grandioso nell’indistinto Caos primordiale sul quale si libra in volo, sprigionando l’energia creatrice con gesti autorevoli separa la luce dalle tenebre, crea le piante e gli astri, benedice il Creato dividendo la terra dalle acque. Nella celebre Creazione dell’uomo, Dio nel manto affollato di spiriti celesti infonde la vita ad Adamo, col tocco dell’indice. Dalla costola di Adamo addormentato crea Eva, che sorge pregando dal fianco maschile. Nella drammatica sequenza di Tentazione e Cacciata dal Paradiso terrestre, entrambi i Progenitori accettano il frutto proibito dal serpente femmina, per poi esser cacciati dall’arcangelo, oppressi dal rimorso e dalla vergogna come in Masaccio al Carmine, ben noto a Michelangelo. Le tre storie finali (ma dipinte per prime) riguardano Noè, nel rapporto fra Dio e l’uomo peccatore. Al terrificante Diluvio universale, con figure più piccole in cui affiorano memorie della Battaglia di Cascina, si affiancano il Sacrificio dopo l’uscita dall’arca e l’Ebbrezza.

Alle storie tratte dalla Genesi sono alternati altri due cicli pittorici che si compenetrano: gli Ignudi a coppie e i grandi medaglioni bronzei da essi sostenuti, raffiguranti le storie guerresche dei Maccabei in finto rilievo con dorature, tra festoni di quercia in cui le ghiande alludono all’arme Della Rovere. I venti Ignudi sono tra le figure più misteriose e memorabili della Volta. Possenti e moderni eredi degli “spiritelli” giovinetti dell’arte quattrocentesca fiorentina, si atteggiano con sforzo elegante in pose che risentono della statuaria antica. Nella varietà dei colori dei capelli e degl’incarnati – pallido, arrossato, ambrato – esaltano la prestanza maschile, belli come Adamo prima della caduta.

Negli angoli, i pennacchi doppi hanno per tema la salvezza d’Israele, con Giuditta e Oloferne, David e Golia, il Serpente di bronzo e la Punizione di Aman, tratti da libri diversi dell’Antico Testamento.


Storie e personaggi dell’antichità biblica e pagana (Volta sistina) (1508-1512); Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.

Sonetto n. 5 (I’ho già fatto un gozzo in questo stento), con autoritratto mentre dipinge la Volta sistina (1508-1512); Firenze, Casa Buonarroti.