il ritorno definitivo
a roma

Benché concepito entro la committenza medicea, il Giudizio universale nella Cappella sistina fu dipinto per incarico di Paolo III Farnese, papa dall’ottobre 1534, che conferì a Michelangelo la carica di supremo architetto, scultore e pittore del Palazzo apostolico.

Dopo le complesse fasi preparatorie che compresero la distruzione di affreschi preesistenti, anche michelangioleschi, per aver libera tutta la parete dell’altare, l’artista si impegnò nella grandiosa impresa dal 1536 al 1541, distogliendosi ancora una volta dalla tomba di Giulio II. Per il «terribile» soggetto si dovette attingere a più fonti dottrinarie, iconografiche e letterarie, tra le quali la Divina commedia di Dante, ben nota a Michelangelo, e forse il poema Iudicium Dei supremum de vivis et mortuis (1506) del Verolano, già maestro di retorica latina del papa. L’esteso affresco (13,7 x 12,2 m), a differenza della Volta, si sviluppa nello spazio non inquadrato da griglie d’architettura dipinta, bensì attraverso la concatenazione di gruppi e di figure nella scena ultraterrena tra l’arida valle di Giosafat, l’Inferno ardente e i cieli blu oltremare del Paradiso.

Fin dai disegni preparatori di Bayonne e di Firenze, Michelangelo si concentrò sulla figura di Cristo giudice, attorniato dalla Madonna e dai santi su nuvole e da una folla d’anime turbinante e agitata, e previde il flusso ascendente dei risorti sulla sinistra e quello discendente dei dannati sulla destra.

Al suo apparire, il Giudizio impressionò profondamente gli osservatori, a partire dal papa, suscitando ammirazione esaltata e sconcertato turbamento. «Fa scuotere i cuori», scrisse Vasari ponendo l’accento sulla resa «terribile» dell’ultimo giorno dell’umanità, china sotto l’ira del giudice. La descrizione dell’immensa composizione, finestra aperta sullo spazio trascendente del blu prezioso e profondo dell’oltremare naturale, costituisce una sfida per chiunque vi si cimenti. Utile l’attacco del Condivi il quale, guidato da Michelangelo stesso, iniziò dagli angeli con le trombe che chiamano le anime alla resurrezione e al giudizio, mostrando i libri delle coscienze individuali. Al suono i morti emergono dai sepolcri e, ripresa la carne, tentano la faticosa ascesa verso il Giudice celeste. Gli eletti salgono, aiutati dagli angeli e dai già salvati, mentre i dannati ghermiti dai diavoli sono trascinati all’Inferno. Fulcro centrale del moto di salita e discesa è Cristo Giudice, che in un duplice atto d’ira e di misericordia con la destra scaccia i reprobi e con la sinistra accoglie i giusti, in un gesto compassionevole che richiama uno stormo di salvati, proveniente da una remota profondità. Glabro ed erculeo, il Cristo trasgredisce ogni iconografia tradizionale apparendo come un giovane dio antico, in atto di sollevarsi con impeto dal suo trono di splendori. Ritrosa, invece, la Madonna nell’alone di luce al suo fianco, come turbata della vista dei peccatori che la Sua materna intercessione non è riuscita a salvare. Nel cielo, tra isole di nubi, anime a coppie e a gruppi vivono l’approdo al Paradiso come naufraghi, ancora incapaci di gioia: negli occhi sbarrati si legge la tensione per la tremenda prova superata. Tra i grandi santi vicini a Cristo compare anche Michelangelo, con un autoritratto nella pelle floscia in mano a san Bartolomeo (scuoiato vivo), che lo consegna ai posteri con amara ironia, come spoglia svuotata e deforme.

Mentre in alto, nelle due lunette, volano gli angeli senz’ali con gli strumenti della Passione quali simboli di redenzione, in basso regnano violenza, terrore e mostruosità: a quest’ultima contribuisce una singolare indicazione anatomica ricorrente in Michelangelo, ovvero la presenza di un terzo incisivo superiore, soprannumerario, in bocche grottesche. L’Inferno gremito di anime dannate e di diavoli è dominato da due figure mitologiche, Caronte il traghettatore e Minosse il giudice (beffardo ritratto del maestro delle cerimonie Biagio da Cesena), che manifestano il ricordo della Divina commedia di Dante.

Una maestria suprema nel disegno, da parte di Michelangelo, governa la struttura della grande composizione costruendo un’architettura di figure poderose, nei più diversi atteggiamenti e scorci. Contro il cielo azzurro e le fiamme infernali, la luce modula i colori (emersi nel restauro del 1990-1994) dal vivido al fioco con un effetto di graduazione plastica, dalla tridimensionalità scultorea del primo piano all’indistinto della lontananza, attraverso una prospettiva di soli corpi umani.

Il Giudizio, pur subendo critiche e censure materiali (le “brache” successivamente dipinte sui nudi), resta attraverso i secoli un apice della pittura di tutti i tempi, che nel rispecchiare le inquietudini della Chiesa cinquecentesca tra eresie, scismi, guerre di religione e anelito riformatore, tocca le corde dell’universalità mettendo in figura le speranze e i timori dell’essere umano.

Negli anni in cui lavorò pressoché solo alla gran parete, Michelangelo attese a poche altre opere. Si data variamente al 1539-1540 o al 1548 il busto marmoreo di Bruto ispirato al Caracalla antico. Destinato al cardinal Niccolò Ridolfi da parte del suo segretario Donato Giannotti, entro il clima di esaltazione del tirannicidio che circolava tra i fuorusciti fiorentini a Roma, andò invece – non finito – a Tiberio Calcagni per poi giungere ai Medici (Firenze, Museo nazionale del Bargello). Se con il Bruto Michelangelo manifestò il proprio orientamento politico a favore della repubblica, altri lavori di questo periodo scaturirono da privati rapporti personali dell’artista, con amici e colleghi.

Uso già a Firenze a donare suoi disegni finiti (detti “presentation drawing”) e ad affidare proprie composizioni ad altri, a Roma destinò fogli di suprema qualità e densa invenzione morale e religiosa a Tommaso de’ Cavalieri e a Vittoria Colonna, i due capisaldi della sua vita affettiva e spirituale. Per il Cavalieri, Vasari ricordò quattro soggetti: il Ratto di Ganimede, la Punizione di Tizio, la Caduta di Fetonte e un Baccanale di putti, cui si aggiunge le «due Cleopatre». Alla devota marchesa (in contatto con il circolo degli Spirituali di Viterbo, animati da istanze di riforma della Chiesa sotto la guida del cardinale Reginald Pole) Michelangelo donò il Crocifisso vivo, la Pietà col verso dantesco «Non vi si pensa quanto sangue costa», le invenzioni con Cristo e la samaritana al pozzo e Noli me tangere, incentrate su personaggi evangelici femminili. Finito il Giudizio nel 1541, Michelangelo con collaboratori tornò a scolpire per la tomba di Giulio II, portandola a compimento (in forma assai ridotta rispetto al progetto originario), nel 1545: sono di questi anni le statue di Rachele o la Vita contemplativa, slanciata verso l’alto in un impeto di preghiera, e Lia o la Vita attiva, stante con matronale gravità. Del pontefice giacente, Michelangelo impartì il nobile concetto senza scolpire la figura, rimasta non finita.


Giudizio universale (1536-1541); Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.

Giudizio universale (1536-1541), particolare del san Bartolomeo; Città del Vaticano, Musei vaticani, Cappella sistina.

Bruto (1539-1540 o 1548?); Firenze, Museo nazionale del Bargello.