Modì non ha ancora diciassette anni, ma già da tre anni, dopo avere contratto il tifo con non poche
complicazioni polmonari, ha abbandonato gli studi e si dedica unicamente alla pittura: «ne fa tutto il giorno e tutti i giorni», annota la madre nel
suo diario, «con un ardore sostenuto che mi stupisce e m’incanta».
Tutto quell’ardore traspare bene in quella lettera all’amico Oscar. Anzi, qualcosa di più. Infatti, c’è già cultura. Modigliani rivela sì il tipico
fervore giovanile che lo spinge a dichiarazioni assolute e, insomma, a lasciare scorrere la penna intingendola nel pathos spontaneo
dell’adolescenza, ma rivela anche non pochi echi letterari: per esempio, una ferrea volontà alfieriana, evidente nell’attendere «ad una nuova opera»
e nel vedervi «la necessità del metodo e dell’applicazione». Si direbbe che l’atteggiamento dell’animo del giovane faccia capo a un bagaglio
scolastico ancora legato al secondo Risorgimento, da cui non è assente l’esempio carducciano.
Tuttavia, su questo sfondo di grandi propositi e di ferme volontà s’insinua la sensualità dannunziana, il gusto letterario per l’effetto forte,
carico di simboli e di spiritualismi; la percezione, infine, di una realtà non soggetta alla pura ragione, ma esaltata e nello stesso tempo
«inquinata» da segreti liquori e da altrettanto magiche forze interiori. Altrimenti, non si scrive: «Io sono ricco e fecondo di germi ormai e ho
bisogno dell’opera. Io ho l’orgasmo, ma l’orgasmo che precede la gioia, a cui succederà l’attività vertiginosa, ininterrotta dell’intelligenza».
Anche «le bellezze di Roma », da cui il giovane artista ha «raccolto la verità sull’arte e sulla vita», che ora intende formulare con «maggiore
lucidità», sono un riferimento da suddividersi tra la cultura carducciana e l’idealismo estetico di marca dannunziana.
D’altra parte, non è un caso che, qualche anno dopo, Amedeo citasse a memoria Carducci e D’Annunzio, oltre a Dante, stupendo gli amici di
Montparnasse per quel suo recitare versi in piena allucinazione.
In ogni caso, la sua cultura di allora non esce dal panorama ristretto di quell’Italia dell’inizio del secolo; anche se sospinta dall’aristocrazia
raffinata della famiglia, essa non si distanzia di molto dalle mediocri conoscenze dei nuovi liceali e comunque delle medie superiori. Anzi, in lui,
e in molti tra i giovani più vivaci di allora, era più forte la rivendicazione e l’aggressività creativa, di quanto non fosse solido e ben
strutturato il terreno su cui poggiavano. Una situazione simile è, a ben vedere, alle origini dello stesso futurismo.
Anzi, ne costituisce il bagaglio, lo slancio e, naturalmente, il limite. Questo gap tra energia creativa, pulsioni desideranti dell’io e reale
consapevolezza culturale è evidentissima (e, vista l’età, prevedibile) sia nella lettera appena citata del 1901, sia in quella (sempre a Ghiglia)
del 1905. Scrive per esempio: «E da questo orgasmo io mi risolleverò gettando di nuovo nella grande lotta, nell’azzardo, nella guerra, un’energia e
una lucidità non prima conosciuta. Io vorrei dirti quali sono le nuove lance con cui riproverò la gioia della guerra».

